Il corpo come parola, la parola come corpo. Tomaso Binga al museo Madre di Napoli
- Postato il 14 giugno 2025
- Arte Contemporanea
- Di Artribune
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Al Madre di Napoli va in scena una retrospettiva necessaria, che restituisce nella sua complessità, 50 anni di carriera di Bianca Pucciarelli Menna alias Tomaso Binga, alter ego maschile scelto dall’artista con ironia e sovversione nel 1976, per scardinare i meccanismi del potere patriarcale nel linguaggio artistico e sociale. “Euforia” è un titolo programmatico, che fonde gioia e consapevolezza, e che rivela fin da subito l’orizzonte politico e poetico della mostra.
La mostra di Tomaso Binga a Napoli
L’allestimento, progettato dal collettivo Rio Grande, sottolinea come il gruppo di architetti abbia lavorato per trasformare lo spazio espositivo in un’estensione del corpo, amplificando la relazione esistente nelle opere di Tomaso Binga tra parola, gesto, e scrittura. L’allestimento non è una cornice che contiene le opere, ma le prolunga. I materiali scelti – le linee curve, le trasparenze, i pieni e vuoti – sembrano rispondere al principio dell’attraversamento, una costante nella pratica di Binga: attraversare generi, ruoli, superfici. Il corpo dell’opera non è rappresentato, è chiamato in causa. Le stanze così diventano dispositivi attivi, percorsi in cui il visitatore è invitato a ripercorrere le tracce di un linguaggio fisico, di un pensiero che si scrive e si forma, diventando corpo.
La parola nell’opera di Binga
In Tomaso Binga, la Parola si fa Corpo. Se, come recita il Vangelo di Giovanni (1,1-14), “In principio era il Verbo e il Verbo si è fatto carne”, l’opera di Bianca Pucciarelli Menna non aderisce a una visione liturgica, ma ne rovescia il senso: non è il Verbo a farsi carne per rivelare il divino, ma è il corpo a farsi linguaggio per esporre una verità terrena, incarnata, politica. Il corpo diventa così luogo del senso, della scrittura e della resistenza. Il corpo diventa alfabeto sovversivo, tipografia vivente, superficie semantica in cui la scrittura si fa gesto e il gesto diventa forma di resistenza.







Il corpo delle donne nell’opera di Binga
In mostra si entra davvero nel corpo e nel linguaggio di Tomaso Binga passando attraverso la gigantografia dell’opera Io sono Io. Io sono me, 1977. Queste due fotografie sono state scattate dalla fotografa di origine argentina Verita Monselles, con la quale ci fu un lungo sodalizio. Attraverso quest’opera si entra nella fenomenologia del corpo come soggetto, per citare Merleau-Ponty, cruciale per comprendere l’opera di Tomaso Binga. L’artista trasforma il corpo in soggetto attivo della parola: non più corpo parlato, ma corpo che parla. Rifiutando il linguaggio imperante il corpo (donna) è soggetto, non oggetto, è il nostro modo di essere al mondo. In quest’opera il corpo dell’artista si offre come dispositivo di senso, come superficie semiotica e performativa che interrompe ogni distinzione tra soggetto e linguaggio. È il corpo a mantenere lo spettacolo visibile, nel senso che è attraverso di esso che si compie l’atto percettivo fondamentale del dare senso alla realtà. Non c’è alcuna distanza tra significante e significato: l’“io” diventa “scrittura incarnata”, tipografia vivente che esiste solo nella misura in cui è vista, performata, riconosciuta. Il corpo mimetizza la lettera, la assume, la mostra e la moltiplica: così facendo, non rappresenta, ma crea una grammatica altra, fatta di carne e paradossi, di ironia e dissidenza. In questa operazione, Tomaso Binga non si limita a rappresentare un’identità, ma la costruisce pubblicamente, performativamente, in un dialogo aperto con chi guarda e legge. “Non sono un uomo, non sono una donna, ma il mio corpo è il corpo della parola. Attraverso la parola ho creato il mio universo artistico. L’inizio? È stato un caso, facevo dei polistiroli, […] erano dei contenitori di oggetti che gettavano e che pescavo dalla spazzatura di una bellezza incredibile, con quegli spazi pieni e vuoti dove inserii le immagini. Li regalai ad amici a Natale. A un certo punto arrivò un ospite, era un critico, li vide e chiese chi fossi. ‘Devi fare una mostra’, mi disse. […] Iniziò tutto o quasi da lì.”
La mostra al Madre di Napoli
In mostra, una grande sala raccoglie oltre venti opere in polistirolo, materiali leggeri e industriali che di norma proteggono, imballano, inscatolano oggetti. Ma nel lavoro di Tomaso Binga, proprio questo atto di contenimento si rovescia: l’involucro non chiude, un oggetto corpo, ma apre il corpo a una nuova dimensione linguistica e simbolica. Binga compone questi elementi con estrema consapevolezza, rompendo la serialità anonima del polistirolo e smascherandone l’estetica pubblicitaria, per restituirne un uso poetico, ironico, profondamente critico. Alcune delle sculture contengono tracce di scrittura desemantizzata, segni che appaiono come segni svuotati di senso normativo, eppure ancora attivi, performativi. Il risultato è un cortocircuito tra funzione e significato, materia povera e gesto poetico: il corpo, anche quando assente, continua a parlare attraverso ciò che lo ha contenuto. Dalla celebre serie dell’”Alfabetiere Murale” al “Confessore Elettronico”, la mostra restituisce con precisione filologica e sensibilità spaziale il nodo cruciale della ricerca di Binga: la parola come gesto, il gesto come dichiarazione di sé, il sé come spazio di lotta. In anni in cui le artiste cercavano legittimità, Tomaso Binga rivendicava paradossalmente l’identità maschile per poter dire il proprio pensiero. Un gesto di travestimento e insieme di denuncia: il corpo femminile diventa tipografia, calligrafia vivente, sintassi incarnata.
Il nome Tomaso Binga
Come affermava l’artista, “il mio nome gioca sull’ironia e lo spiazzamento; mettendo allo scoperto il privilegio maschile che impera e imperava nel campo dell’arte, è una contestazione per via di paradosso di una sovrastruttura che abbiamo ereditato e che, come donne, vogliamo distruggere. In arte, sesso, età, nazionalità non dovrebbero essere delle discriminanti. L’artista non è un uomo o una donna ma una PERSONA”.
È PERSONA quando, nel 1976, realizza l’opera ambientale Io sono una carta, allestita nell’appartamento di Casa Malangone: un’intera abitazione rivestita di carta da parati, su cui l’artista espande una scrittura desemantizzata, mentre indossa un abito realizzato con lo stesso materiale. Il corpo si fonde con l’ambiente, ne assume il linguaggio, fino a confondersi con esso. Le pareti diventano superficie di iscrizione per una scrittura corsiva, ripetuta, quasi illeggibile, che non comunica secondo un codice stabile ma si affida al ritmo, al gesto, alla presenza. È una scrittura corporea, che richiama l’écriture féminine teorizzata da Hélène Cixous: non una lingua per rappresentare la donna, ma una lingua altra, radicata nel corpo e nella differenza. Qui, il linguaggio non è strumento descrittivo, ma ambiente, tessuto denso che assedia e avvolge il corpo, lo abita e lo protegge. Illeggibile eppure visivamente insistente, quella scrittura afferma che le donne non sono presenze decorative o quote simboliche, ma soggetti che esistono, che si iscrivono, che occupano spazio e senso. Così facendo, Binga non rappresenta “la donna”, ma costruisce una grammatica alternativa, fatta di carne, paradossi, ironia e dissidenza, in un dialogo aperto con lo sguardo dell’altro. In mostra, l’intervento è ricreato attraverso una nuova produzione della carta da parati originale, che restituisce la potenza immersiva e politica di quell’installazione storica.

La scrittura nella pratica di Tomaso Binga
A conclusione della mostra, un grande foglio bianco sollecita l’intervento del pubblico, invitato a scrivere liberamente: un gesto collettivo che richiama l’azione storica Parole da conservare / Parole da distruggere, realizzata da Tomaso Binga nel 1974 per inaugurare le attività del Lavatoio Contumaciale, spazio indipendente nato come reazione all’egemonia culturale dominante, laboratorio vivo di visione alternativa. Se nell’azione originale due grandi rotoli venivano messi a disposizione del pubblico, uno per le parole da conservare, l’altro per quelle da distruggere e l’artista interveniva poi tagliando in piccoli pezzi le parole da cancellare, oggi l’invito è più sottile ma altrettanto potente: il pubblico è metaforicamente chiamato a condividere le proprie parole da “custodire”. Tomaso Binga scrive una sola parola, tracciata a mano: “Amore”. Un termine semplice e radicale, che sintetizza la sua visione orizzontale, plurale e inclusiva del mondo. In un tempo segnato dalla frattura, dalla polarizzazione e dalla retorica dell’odio, l’amore torna ad essere parola politica, atto di cura e resistenza, linguaggio primo e ultimo del corpo e della scrittura.
“Euforia” non è dunque solo una retrospettiva, ma un archivio emotivo e politico. In un tempo che continua a interrogarsi su genere, linguaggio e rappresentazione, l’opera di Binga si impone come anticipazione e detonazione. Il corpo, ancora una volta, è il primo e ultimo territorio da abitare e da riscrivere.
Benedetta Carpi De Resmini
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