Il cemento è nostro: la sentenza, il sequestro e il silenzio pubblico

  • Postato il 13 agosto 2025
  • Ambiente
  • Di Paese Italia Press
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Di Francesco Mazzarella

Un verdetto inequivocabile

Il 15 aprile 2019, con la sentenza definitiva della Corte di Cassazione, si chiude una delle pagine più amare dell’urbanistica siciliana recente. Il Centro Intrattenimenti Sofocle di San Gregorio viene dichiarato abusivo. Non un vizio di forma. Non un dettaglio. Ma una lottizzazione abusiva vera e propria, realizzata in totale contrasto con la normativa urbanistica vigente e con il Piano Regolatore Comunale.

Secondo i giudici, il complesso è stato costruito su un’area classificata come “verde agricolo”, con vincoli paesaggistici e ambientali. L’intervento è stato giudicato non solo privo dei titoli edilizi necessari, ma anche frutto di un evidente abuso di potere autorizzativo da parte di alcuni uffici tecnici e politici del Comune.

In parole semplici: non si poteva costruire nulla lì, tanto meno un complesso da 30.000 metri quadri con multiplex, ristoranti, parcheggi e negozi. Eppure, è stato fatto.

Sequestro e confisca

La conseguenza più grave e simbolica è stata la confisca del bene. Il tribunale ha ordinato il passaggio dell’intera struttura al patrimonio pubblico, in particolare al Comune di San Gregorio di Catania. Una beffa amara: un edificio costato decine di milioni di euro, oggi nelle mani di un ente locale che non sa cosa farne.

Nel frattempo, la struttura è caduta nel degrado più totale. Nessuna manutenzione, nessuna custodia, nessun piano di utilizzo. Gli ingressi sono murati, ma l’interno è facilmente accessibile da chiunque voglia entrare: curiosi, sbandati, tossicodipendenti, perfino bambini. La struttura è diventata un rudere pericoloso, visibile da chilometri, simbolo di abbandono e disinteresse.

Un Comune con le mani legate

Il sindaco in carica, Carmelo Corsaro, ha più volte dichiarato pubblicamente l’impossibilità di affrontare la situazione. “Il Comune – ha spiegato – non ha i fondi per procedere alla demolizione. E ogni intervento di riconversione richiederebbe una bonifica e una regolarizzazione impossibile”.

Una demolizione, secondo alcune stime, costerebbe oltre 4 milioni di euro. Somma fuori dalla portata di un Comune con un bilancio annuo inferiore a 12 milioni, già appesantito da spese ordinarie e piani di riequilibrio.

La situazione è quindi congelata: il Comune non può demolire, non può vendere, non può nemmeno mettere in sicurezza l’edificio. Le richieste di finanziamento presentate alla Regione e allo Stato sono rimaste senza risposta.

Proposte rifiutate

Eppure, nel tempo, alcune proposte sono arrivate. Una delle più concrete è stata quella avanzata da un gruppo commerciale legato al centro “Porta di Catania”, che avrebbe voluto riconvertire l’immobile in un’area produttiva o commerciale, previa messa a norma. Ma la giunta ha dovuto rifiutare: la sentenza di confisca impone il mantenimento della destinazione pubblica. Nessun utilizzo privato è ammesso, né è concesso modificare la struttura senza l’autorizzazione della Soprintendenza e del Ministero dell’Ambiente.

Il presidente del Consiglio Comunale, Ivan Albo, ha dichiarato: “Siamo ostaggio di un bene che non possiamo usare. Abbiamo ereditato un errore che nessuno ha il coraggio di affrontare”.

Il silenzio della politica

La Regione Siciliana non ha mai formalmente preso posizione. L’assessorato al Territorio ha preferito ignorare il caso. Nessuna proposta in aula, nessuna interrogazione all’ARS, nessun piano di recupero annunciato.

Anche la Città Metropolitana di Catania si è limitata a trasmettere note tecniche senza valore risolutivo. Nessun ente ha assunto la responsabilità politica di trovare una via d’uscita. E così, il mostro è rimasto lì, a memoria di un fallimento.

Dove sono i colpevoli?

La domanda che molti cittadini si pongono è semplice: chi ha pagato per tutto questo? Chi ha firmato le concessioni, chi ha validato i progetti, chi ha sorvolato sui vincoli urbanistici?

Le inchieste giudiziarie hanno identificato responsabilità tecniche ma nessuna pena significativa è mai stata scontata. Il progettista, l’amministratore della società, alcuni funzionari comunali sono stati coinvolti in procedimenti penali, ma la prescrizione e la complessità delle prove hanno indebolito tutto. Non ci sono stati arresti. Non ci sono state sanzioni pecuniarie rilevanti.

Un sistema che ha permesso, nel silenzio e nella complicità, la nascita di una struttura illegale che oggi pesa sulla collettività.

Una bomba sociale e ambientale

Nel frattempo, l’edificio rappresenta un pericolo concreto. L’amianto presente in alcune coperture secondarie, il cemento fessurato, le infiltrazioni d’acqua, l’assenza di manutenzione: tutto contribuisce a creare un rischio sanitario, soprattutto per i residenti delle zone limitrofe.

Inoltre, il sito è diventato terra di nessuno. Alcuni report parlano di accampamenti notturni, di uso illecito degli spazi interni per attività illecite. Ma nessuno interviene. Nessuno ha competenza operativa diretta. La polizia locale può solo notificare, ma non agire.

Un patrimonio negativo

Il paradosso è evidente: un bene pubblico di valore immenso, che potrebbe ospitare attività culturali, associative, sportive, sociali, è diventato un peso, un costo, un problema irrisolvibile. Una ferita aperta nel tessuto urbano, che degrada giorno dopo giorno.

Il prezzo del silenzio

Il centro Sofocle è il risultato non solo di un abuso edilizio, ma soprattutto di un’abdicazione collettiva alla responsabilità. Nessuno ha vigilato. Nessuno ha detto “no”. Nessuno ha fermato un cantiere che si vedeva a chilometri di distanza.

E oggi, nessuno sa come intervenire.

articolo 1 : Un sogno di cemento: nascita, soldi e bugie del centro Sofocle 11 agosto

Articolo 3: Il cemento è nostro: la sentenza, il sequestro e il silenzio pubblico 15 agosto

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