I crimini in carcere vanno valutati diversamente: solo così lo Stato potrà tornare a comandare davvero

  • Postato il 15 settembre 2025
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Chi comanda davvero nelle carceri? Verrebbe da rispondere che è lo Stato, ma da tempo non è più così. Le carceri, in Italia, non sono più soltanto luoghi di custodia cautelare o di esecuzione della pena. Sono un mondo a parte, un territorio ad altissima densità criminale, dove proprio lo Stato e chi lo rappresenta hanno perso autorevolezza.

Dietro le sbarre si spacciano sostanze, si aggredisce, si estorce, si violenta, si ricatta. E ciò che rende tutto più grave è che, assai spesso, chi commette questi reati resta nella fortezza blindata delle sezioni detentive, persino accanto alla persona offesa.

Quando un detenuto spara a un altro come è successo a Frosinone, oppure spaccia droga, aggredisce agenti o commette violenza sessuale come accaduto a Prato, non ci sono reazioni immediate. Il detenuto può restare nella sua “comfort zone” e il boss della sezione può continuare a taglieggiare gli altri detenuti. Se la vittima è un altro detenuto, spesso neanche sporge denuncia, per paura e per la consapevolezza che il sistema non è in grado di tutelarlo. Se la persona offesa è un agente deve ingoiare il boccone amaro, perché l’amministrazione tende a minimizzare e, in alcuni casi, a perseguirlo disciplinarmente per non aver saputo “gestire” l’evento. Sono paradossi che generano un circolo vizioso: l’impunità alimenta la violenza, la violenza erode l’autorevolezza dello Stato.

La situazione è sotto gli occhi di tutti. Le sostanze stupefacenti entrano con facilità, insieme a telefonini e armi prodotte artigianalmente, mediante droni o complicità interne. Le estorsioni ai familiari dei detenuti rivelano un sistema parallelo di potere che si estende oltre le mura. Negli istituti penitenziari c’è il racket dei posti di lavoro e delle celle. Gli agenti subiscono aggressioni e minacce. Il personale della Polizia Penitenziaria lavora in condizioni estreme.

Non ha le stesse opzioni della Polizia di Stato o dell’Arma dei Carabinieri che possono intervenire con armi, cani antidroga e reparti antisommossa. Nei penitenziari non si può agire allo stesso modo. Dopo ogni denuncia, l’agente deve continuare a operare accanto agli stessi soggetti denunciati che dovrebbero essere trasferiti in sezioni a massima sicurezza penitenziaria.

Ma è lo stesso crimine ad essere valutato diversamente. Se un carabiniere viene aggredito in una piazza cittadina, l’autore viene arrestato e separato dalla vittima. In carcere, no. Le procure ordinarie non trattano i reati dietro le sbarre con la stessa urgenza. I magistrati spesso non percepiscono la gravità del contesto. Si parla di centinaia se non migliaia di fascicoli giacenti. Eppure, il carcere è un ambiente ad altissimo rischio criminale, dove ogni episodio ha ripercussioni amplificate e il personale di Polizia Penitenziaria è esposto, isolato, ignorato. Assimilato più a carnefici che a vittime, mentre la catena di comando amministrativa è inconsistente.

Esiste la magistratura di sorveglianza, del tutto insufficiente dal punto di vista organico. A tale magistratura competono solo il controllo sull’esecuzione penale e sulle misure alternative, mentre la giurisdizione sui reati commessi in carcere permane in capo alla magistratura ordinaria.

Due le conseguenti valutazioni: i reati commessi in carcere non sono l’inevitabile risultato della detenzione e possono determinare effetti ben peggiori di quelli esterni; per affrontare pienamente il problema occorre avere una approfondita conoscenza del contesto e la possibilità di intervenirvi celermente.

Non costituisce un mero intento repressivo auspicare che i reati in carcere pesino di più. Chi aggredisce un agente o devasta celle e sezioni deve affrontare aggravanti specifiche. La devastazione di una struttura penitenziaria è un attacco diretto allo Stato. Lo spaccio dietro le sbarre viola non solo la legge, ma l’ordine costituito e la legittima aspirazione della maggioranza dei detenuti di scontare il proprio debito e di rientrare nella società civile. Servono pene più severe e l’esclusione automatica dai benefici penitenziari.

Negli Stati Uniti, le procure federali agiscono con rigore. Le pene per i reati in carcere sono aggravate automaticamente. Nel Regno Unito esistono aggravanti specifiche per i crimini in prigione.

Serve una riforma che tuteli chi lavora in carcere e chi ci vive onestamente. Lo Stato deve tornare ad essere autorevole anche dietro le sbarre ed è necessario istituire specifiche sezioni presso le procure della repubblica, composte da magistrati esperti delle dinamiche carcerarie e che agiscano in coordinamento con la magistratura di sorveglianza per la decadenza immediata dai benefici e l’inserimento dei soggetti peggiori in circuiti di massima sicurezza detentiva.

Il carcere deve tornare ad essere un luogo di giustizia, non di sopraffazione. Il tempo delle mezze misure è finito. Dietro le sbarre non possono comandare i criminali: deve essere rispettata la legge e tutelata la collettività.

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Il Fatto Quotidiano

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