I collezionisti d’arte stanno diventando un fenomeno culturale?
- Postato il 18 novembre 2024
- Arti Visive
- Di Artribune
- 1 Visualizzazioni
La scomparsa di Alain Delon lo scorso agosto, oltre ad averci privato di uno fra gli ultimi divi storici del cinema, ha messo in rilievo un lato poco noto della sua personalità, cioè quello di collezionista. L’impulso a collezionare, del resto, fa parte dell’uomo, fin da quando esiste una vita sociale. Ne sono testimonianza le suppellettili funerarie che, a partire dal Neolitico, venivano inumate insieme al defunto, definendone lo status e il rango. La stessa mente umana non accatasta casualmente gli oggetti, ma è strutturalmente portata a dar loro un ordine, una distribuzione, un sistema e, insomma, un senso. Un esempio è fornito da Julio Cortàzar in quel fantasmagorico “libro di tutti i libri possibili” che è Il gioco del mondo (Rayuela, 1963), in cui ad un certo punto il personaggio Ceferino arriva a sostenere che tutto il mondo potrebbe essere considerato dal punto di vista della “collezione”: infatti, “un ufficio, non è che una collezione di funzionari; una scuola, una collezione di alunni, un cimitero, una collezione di cadaveri; una prigione, una collezione di detenuti”.
I film sui collezionisti
Questo passaggio però fa sospettare che in una collezione può finire collezionato anche il collezionista, e infatti è ciò che accade nei film dedicati allo stesso tema. È impossibile non ricordare esempi celebri che vanno da La collezionista di Eric Rohmer (La collectionneuse, 1967), a titoli noir, come Il collezionista di ossa (The Bone Collector, Philip Noyce, 1999). Uno dei film sul tema tra i più riusciti, cioè La migliore offerta di Giuseppe Tornatore (2013), mostra esattamente questo lato paradossale della collezione che finisce coll’imprigionare il collezionista in una trappola micidiale, cioè quella del suo stesso desiderio di possesso.
Qualcosa di analogo si verifica nei diversi documentari che, soprattutto negli ultimi anni, sono stati dedicati alle storiche figure di autentici collezionisti, a partire dalla “dogaressa” Peggy Guggenheim, (Peggy Guggenheim. Art Addict, Lisa Immordino Vreeland, 2015), fino ai coniugi newyorkesi Vogel, protagonisti di Herb & Dorothy di Megumi Sasaki, 2009, o più recentemente i coniugi Spanu proprietari della Olnick Spanu Collection (Garrison. A Postcard from Paradise, di A.G. Onofri, 2010) per arrivare a figure leggendarie come Albert C. Barnes (1872-1951), fantasma aleggiante su The Art of the Steal di Don Argott, 2009.
La collezione di Albert C. Barnes
Il caso di Barnes è però del tutto particolare in questo senso. Che cosa accade quando il collezionista muore e deve per forza maggiore abbandonare la collezione al suo destino (era un pensiero che attanagliava lo stesso Delon, che infatti vendette personalmente parte della sua collezione nel 1999 e nel 2007)? La risposta di The Art of the Steal sembra dire che molto dipende dall’ammontare del valore della collezione stessa, sia in senso economico che sociale – e il valore della collezione Barnes (si parla di 25 miliardi di dollari) è davvero grande.
La storia di Albert C. Barnes, farmacista ma anche valente businessman, amico di personaggi come Bertrand Russell e John Dewey, è già romanzesca di per sé – e non a caso è divenuta il soggetto di un altro documentario per HBO, The Collector (Jeff Folmsbee, 2012). Ciò che però il film di Don Argott dimostra è che, nonostante le precise indicazioni testamentarie di Barnes, tra cui il fatto che non dovesse mai essere trasferita, la sua collezione, originariamente collocata nel piccolo borgo di Merion, venne spostata nel 2004 in un moderno edificio nel cuore di Philadelphia, sollevando polemiche tra gli amici della Fondazione, la popolazione di Merion e gli attuali responsabili, accusati di voler speculare sull’enorme valore della collezione, che conta oltre 9mila pezzi, “ribrandizzata” (abusivamente?) come Frances M. Maguire Art Museum, che ha aperto i battenti lo scorso 2023.
La “zombiefication” delle collezioni
La lezione da trarre da questo caso è che una collezione non solo sopravvive a chi l’ha realizzata, ma può trasformarsi in un vero e proprio zombie, un morto-vivente che continua a suscitare le più disparate reazioni, dall’ossessione al desiderio, dalla cupidigia all’aggressività. In altre parole, una collezione è un vero dispositivo culturale, ma anche politico ed è precisamente per questa ragione che essa suscita l’interesse dei registi. E talvolta anche degli attori.
Marco Senaldi
Libri consigliati:
L’articolo "I collezionisti d’arte stanno diventando un fenomeno culturale?" è apparso per la prima volta su Artribune®.