Honey Don’t, Alpha, La valle dei sorrisi: da Cannes e Venezia in sala tre film tra alti e bassi
- Postato il 18 settembre 2025
- Cinema
- Di Il Fatto Quotidiano
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HONEY DON’T di Ethan Coen (Usa, 2025)
Toh! Un film dei Coen, pardon di un Coen, Ethan, pieno di enormi dildo, butt plug e strap-on. Si fa parecchio sesso in Honey don’t: in modo ironico, sopra le righe, esasperato. Siamo in un anonimo centro urbano (senza alberi) della periferia californiana. Honey O’Donahue (Margaret Qualley), una giovane investigatrice privata lesbica, indaga sulla morte di una donna in uno strano incidente e poi sulla strana sparizione della nipote. Con l’aiuto di una poliziotta (Aubrey Plaza) condividerà libidini e orgasmi sfrenati (perfino al bancone del bar) e finirà per trovare il possibile bandolo della matassa alla scrivania di uno strampalato reverendo (Chris Evans) scopatore incallito, vanesio e criminale. Coen e signora – Tricia Cooke – scrivono il secondo film della loro “trilogia lesbica di serie B” (il primo è Drive Away Dolls dell’anno scorso) e lui gira una succinta, scoppiettante, lineare dark comedy che sembra strutturalmente un noir alla Marlowe imbibito di assatanati cunnilingus, forsennati accoltellamenti e fiumi di sangue. Coen sembra come fare un passo ghignante e furbetto di lato rispetto all’autorialità di famiglia e d’appartenenza, fingendo una grossolanità stilistica zeppa di inquadrature clichè, dialoghi non sense, personaggi stereotipo che fanno tanto gloriosa serie B, ma che risultano nient’altro che l’altro lato della medaglia creativa, quella più comprensibile e rassicurante, del postmodernismo alla Non è un paese per vecchi o Blood simple. Qualley e Plaza regalano scintille porno soft. Gran lavoro di costumi, oggettistica, trucco ed effettistica per regalare una confezione coloratamente pop e pulp.
ALPHA di Julia Ducournau (Francia, 2025)
Più che un film brutto, Alpha ha il grosso difetto di essere un film che poteva essere bello (e anche molto). Siamo sul finire degli anni novanta in una grande città francese. Una tempesta di terra rossa sta per saturare l’aria. La tredicenne Alpha (Melissa Boros) torna a casa mezza intontita da una festa notturna dove le hanno tatuato sul braccio una A. La madre di origine magrebina (Golshifteh Farahani), una dottoressa che cura impavida pazienti che sembrano avere il corpo gradualmente marmorizzato fino alla morte, teme un contagio e la sottopone ad analisi; mentre le compagne di classe isolano Alpha come fosse un’appestata. Nel frattempo a casa loro appare e si insedia il fratello di mamma (Tahar Rahim), tossicodipendente in continua crisi che si contorce e si gratta, e d’improvviso si fa catatonico e pure lui lentamente marmoreo. Dopo Raw e Titane, Ducournau torna a rimodellare e ricostruire una sua versione di cinema scarnificante, materico, tattile. Sfida ascissa e ordinata della comprensione razionale (che qualcuno dei protagonisti stia sognando tutto?), offrendo una messa in scena con macchina a mano frenetica, tumultuosa ed estrema, ma incartandosi spesso nel tortuoso e caotico riordino tra intimismo, contesto e riferimenti simbolici. Tra body horror cronenberghiano/depalmiano (Alpha – la protagonista – è Carrie nella sequenza mirabile della piscina inondata di sangue) e dramma familiare ai tempi dell’Aids, Alpha (il film) è capace di regalare momenti di soffocamento e fastidio, di commozione e sofferenza, non riuscendo però a mettere a fuoco realmente il cuore del proprio discorso. Rimane quindi tanta precisa evocativa ricerca fotografata in metallico blu grigio, ma anche una bulimica inconcludenza drammaturgica. Musica spesso a palla oltre ogni ragionevole innesto extra diegetico. Rahim sempre performativamente immenso, qui magrissimo con le ossa che quasi gli sfondano la pelle come fosse il Joker di Phoenix.
LA VALLE DEI SORRISI di Paolo Strippoli (Italia, 2025)
Sembra un horror ma è un dramma sul superamento impossibile del dolore. Se andate a vedere La valle dei sorrisi, terza regia di Paolo Strippoli, non troverete la comfort zone di genere dagli stilemi ricorrenti, ma solo l’uso intuitivo, necessario, finanche massiccio di elementi di messa in scena del sovrannaturale. Nel paese alpino di Remis, dove tempo addietro è avvenuta una strage ferroviaria con decine di morti, e dove tutti gli abitanti oggi sorridono e sono felici, giunge Sergio, un malmostoso insegnante di educazione fisica (Michele Riondino) arrabbiato col mondo. Tempo qualche giorno e l’uomo scoprirà che il suo alunno Matteo (Giulio Feltri) ha poteri taumaturgici, sfruttati in un hangar chiesa dal padre e da uno squallido prete: abbracciando le persone toglie loro il dolore e le rende gioiose. Chiaro, anche Sergio ha bisogno di quell’abbraccio, ma il povero Matteo non ne può più e vorrebbe vivere una vita normale, fatta di amori (gay) e rispetto dal prossimo a prescindere dal suo ruolo sociale. Per una buona mezz’ora Strippoli tiene alta la suspense lavorando alla creazione di un’atmosfera disorientante e sul suono (rumori sinistri e colonna sonora insinuante), poi da metà in avanti (il film dura oltre due ore) srotola un’agnizione piuttosto dilatata che deflagra visivamente in una dimensione percettiva tra il massacro e la dissoluzione. Giocando sull’ambiguità tra religiosa fede e laica speranza, Strippoli lascia che sia il sacrificato e sacrificabile Matteo a mondare ossessioni, opportunismo e laidume di una comunità simbolicamente ed eticamente confusa tra bene e male. Uno jump scare forse gratuito e una certa velleità di viaggiare stilisticamente alti, Strippoli sembra avere stoffa per qualcosa anche di più sciolto e libero oltre la ricetta minimale. Giulio Feltri, che ha un carico di senso del racconto addosso non da poco e non sfigura affatto, è il nipote del giornalista Vittorio.
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