Ho visitato il campo di Buchenwald, ne sono uscita col desiderio di dare e ricevere amore

  • Postato il 15 settembre 2024
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“Liberi da ogni censura sociale, i giovani si lasciavano andare apertamente ai loro istinti e col favore della notte si accoppiavano in mezzo a noi senza preoccuparsi di nessuno, soli al mondo. Gli altri facevano finta di non vedere”. Elie Wiesel, Premio Nobel per la Pace nel 1986, narra nel libro La notte la sua deportazione iniziata dentro a un vagone di un treno.

La memoria è una scia luminosa. Mossa da questa cometa, ho deciso di partire da Bologna proprio in treno, arrivare in Turingia e visitare il campo di concentramento di Buchenwald.

Arrivo a Weimar che è la cittadina in cui ha vissuto Goethe e tutto porta il suo nome, spritz compreso. E da dove partono i bus per Buchenwald? Ovviamente da Goetheplatz. In perfetto orario si sale, si fa il biglietto pagando € 2,70 al controllore e dopo una mezz’ora si arriva a destinazione. La mattina presto è il momento migliore per immergersi in quel luogo la cui traduzione letterale è “bosco di faggi”. Una comoda app in lingua italiana aiuta ad avere tutte le informazioni relative agli edifici e a ciò che successe. Sul cancello dell’entrata, sovrasta l’ingresso la scritta del 1937 “A ciascuno il suo”, leggibile solo dall’interno.

Il percorso inizia con le celle dei prigionieri torturati e spesso buttati, ancora in vita, nel crematorio. Impossibile non commuoversi.

E’ una giornata di sole e di azzurro. Il campo è enorme. Delle baracche non c’è più traccia. Del crematorio, sì. Accanto al camino c’è un cortile, si apre una porta e si arriva nella sala della sezione dei cadaveri. Qui i patologi tagliavano, estraevano denti d’oro, segavano i corpi e gli strumenti sono conservati in una bacheca di vetro. Mi soffermo a guardare le vasche con le piastrelle ancora segnate. Impressionanti.

Sempre con l’app che mi guida, a pochi metri ecco la ricostruzione dell’impianto delle esecuzioni. Secondo i ricordi di un ex deportato, negli anni 60 è stato realizzato questo edificio che è la copia perfetta di quello che era apparentemente un ambulatorio. I prigionieri politici, gli intellettuali, gli ebrei, i funzionari di stato e del partito dell’Unione Sovietica venivano condotti a una visita medica falsa. Dopo i vari controlli, si conduceva il deportato alla misurazione dell’altezza, ignaro del meccanismo che si celava. Dietro la sua nuca, una SS sparava un colpo da una fessura creata apposta perché durante l’esecuzione non ci fosse contatto di sguardi.

Sono dovuta uscire, sedere e respirare l’aria pura. Intanto gruppi di scolari, rigorosamente maggiori di dodici anni come da regole, iniziano ad arrivare a visitare il Memoriale e a prendere appunti. Sono attenti, silenziosi. Alcune ragazze si abbracciano mentre leggono le didascalie esplicative sotto immagini terribili. Sorrido loro, ci capiamo. Aleggia una solidarietà di un pensiero comune e di grande rispetto verso il dolore impregnato nelle testimonianze di chi è perito. Guardo la fotografia un po’ sbiadita della signora Margarete Schneider con i suoi sei bambini sorridenti e in posa. Fuori la neve. Nel 1937 mandò questa cartolina natalizia al marito, recluso a Buchenwald. Non la ricevette mai.

Il percorso museale è ben fatto anche se si dà poco spazio alla narrazione dei bordelli. Qualche foto degli interni con le lenzuola pulite, i vasi di fiori sul tavolo, le tende ricamate e capisci perché si faceva di tutto pur di avere un bagno caldo, cibo e cercare di sopravvivere a costo di diventare schiava sessuale.

E cosa dire della deliziosa cittadina di Weimar, Goethe a parte? Che qui pressoché nessuno parla inglese, che la pizza è buonissima come pure il gelato, che tutto è curato e pulito ma ovunque ti giri senti la pesantezza di Hitler e del suo sistema: il balcone dell’hotel Elephant tutt’oggi aperto e pieno di turisti, la stazione centrale testimone dei trasporti della morte con quei lampadari massicci, il colore nero imperante o forse è il Bauhaus. Parlando con un gentile ristoratore italiano, a Weimar da tredici anni, apprendo che nel cortile in cui c’erano gli uffici, le carceri, la sede della Gestapo qualcuno dice che talvolta, la notte, si sentano ancor’oggi le urla terrorizzanti dei gerarchi.

Si lasciano questi luoghi con il desiderio ardente di dare e ricevere amore. Anche fisico.

Ripenso a coloro che insieme all’adolescente Wiesel erano sul treno verso l’ignoto e si legavano in un unico passionale, straziante intreccio. Sicuramente l’ultimo della loro giovane vita.

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Il Fatto Quotidiano

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