Gli indicatori di “benessere” del governo: nei prossimi tre anni nessun miglioramento su povertà assoluta e disuguaglianza
- Postato il 7 ottobre 2025
- Economia
- Di Il Fatto Quotidiano
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Il reddito disponibile lordo degli italiani crescerà in termini nominali dell’11,5% entro il 2028 rispetto ai valori del 2024. Quello reale, che tiene conto cioè dell’inflazione, salirà di un paio di punti percentuali. Le buone notizie in arrivo dall’allegato al Documento programmatico di finanza pubblica in cui il ministero dell’Economia guidato da Giancarlo Giorgetti monitora il “benessere equo e sostenibile” del Paese finiscono qui. Perché, stando alle stesse previsioni del governo, il tasso di povertà assoluta familiare è destinato a rimanere inchiodato all’8,4% e pure la disuguaglianza, cresciuta non poco dal 2022, non darà segni di ripiegamento.
I numeri raccontano un’Italia che corre a due velocità. Da un lato, il reddito disponibile delle famiglie salirà dai 28.109 euro del 2024 ai 31.345 del 2028, in termini nominali. Dall’altro, circa 5 milioni di persone (2,5 milioni di famiglie) resteranno in povertà assoluta per tutto il periodo. Come se la crescita economica scorresse su binari paralleli. Intanto il rapporto che misura di quante volte il reddito del 20% più ricco supera quello del 20% più povero è salito nel 2024 a 5,7, tornando ai livelli del 2019, prima della pandemia, e annullando la diminuzione che si era registrata subito dopo il Covid. E il Mef si attende su quei livelli anche nel prossimo triennio, quello che finisce poco oltre l’orizzonte dell’attuale legislatura.
Eppure, si dirà, l’economia cresce, seppure a tassi ridotti, l’occupazione è aumentata – seppure soprattutto per effetto della permanenza al lavoro degli over 50 – e l’inflazione è scesa dal 6,2% al 2%. La spiegazione? Mentre i redditi del quinto più ricco della popolazione italiana continuavano a salire, quelli del quinto più povero si sono fermati. Il risultato è che la forbice si è allargata. La disuguaglianza più alta si registra nella fascia di età 60-64 anni, quella dei “pre-pensionati”: nel 2023 il rapporto tra il reddito totale posseduto dal 20% della popolazione con il più alto reddito e quello posseduto dal 20% con il reddito più basso era pari in quella fascia a 7,1, ben 1,6 punti in più rispetto alla media. Ma un fortissimo aumento si è registrato anche per i 25-34enni.
Sul fronte della povertà, il documento è ancora più esplicito nel certificare lo stallo. La percentuale di persone in povertà assoluta – quelle che non riescono a permettersi un paniere minimo di beni e servizi – è ferma all’8,4%. Nel 2022 era schizzata dal 9,1% al 9,7%, trascinata dall’inflazione. Nel 2023 si è stabilizzata grazie al miglioramento del mercato del lavoro che ha compensato il carovita persistente. Ma da lì non si schioda. Le previsioni del Mef vedono l’indicatore immobile fino al 2028. Se qualcuno uscirà dall’indigenza sarà sostituito da chi ci entra, in un gioco a somma zero. La nuova manovra ora in fase di messa a punto non cambierà nulla: “Il rifinanziamento di alcune misure previste dalla legge di bilancio 2024 solo per l’anno in corso (in particolare, la ‘Social Card’ e l’esonero contributivo totale per le lavoratrici madri di due figli, fino al compimento del decimo anno di età del figlio minore) non determinerebbe variazioni significative nel livello dell’indicatore”.
In questo quadro il governo Meloni, come è noto, ha abolito il reddito di cittadinanza sostituendolo con l’Assegno di inclusione (AdI) e il Supporto formazione e lavoro riservato agli “occupabili”. Nonostante la revisione arrivata con la legge di Bilancio 2025, che ha alzato le soglie di Isee e reddito per l’accesso, le simulazioni del Mef mostrano che l’impatto sulla povertà resta molto limitato. Tanto più che le stime del documento si basano sull’ipotesi che tutti gli aventi diritto facciano domanda, mentre nella realtà a presentarla è solo il 60%.
I numeri non tengono conto, specifica il report, degli “interventi programmati, quali ad esempio la riforma dell’imposta sul reddito delle persone fisiche”, con l’annunciata riduzione della seconda aliquota dal 35 al 33%, “che saranno compiutamente definiti in sede di predisposizione della prossima Legge di Bilancio”. Di certo c’è che le misure già messe in campo – riduzione del cuneo fiscale per i redditi fino a 40mila euro, bonus per quelli più bassi, esoneri contributivi per le madri lavoratrici – non bastano per chiudere la forbice. E il documento lo mette nero su bianco. Ammettendo che “la portata redistributiva degli interventi in esame”, quelli sul cuneo, “pur essendo più ampia rispetto a quella dei precedenti, non produce effetti significativi ai fini dell’indicatore” della disuguaglianza, “che coglie i soli estremi della distribuzione dei redditi”.
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