Gli effetti della guerra di Israele contro l’Iran: altro che “regime change”, a Teheran si rafforza il nazionalismo

  • Postato il 2 agosto 2025
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Nel corso dei dodici giorni di guerra tra Iran ed Israele, il governo di Tel Aviv ha fatto capire che l’obiettivo dei suoi strikes non sarebbe stato solo quello di rallentare il programma nucleare iraniano, ma anche di innescare una escalation politica interna a Teheran, potenzialmente finalizzata ad un regime change. Tuttavia, proprio gli attacchi diretti da parte di Israele hanno spostato l’asse del dibattito interno in Iran stesso. Non nella direzione desiderata da Netanyahu, bensì in quella opposta.

La guerra, agli occhi di molti iraniani, non appare più come un’astrazione ideologica di un regime dalla postura perennemente antagonista: ha varcato i confini ed è arrivata in casa, risvegliando un mai davvero sopito nazionalismo, anche in chi fino a pochi mesi fa considerava inopportuna o pretestuosa la tendenza del regime a convogliare risorse verso i propri alleati regionali, nella logica di aumentare le difese asimmetriche e la profondità strategica. Ed è quindi in questo mutato paesaggio politico e psicologico che la stessa narrazione del regime, da sempre costruita su una retorica di autodifesa contro l’aggressione israeliana, ha iniziato a guadagnare un consenso più trasversale – anche tra segmenti delle generazioni più giovani, meno religiose ma forse più nazionaliste -, che fino a pochi mesi fa sembrava impensabile.

Già lo scorso 23 giugno, sul Canale 3, il giovane conduttore Amir Hossein Tamahsebi aveva aperto la sua trasmissione con toni inequivocabili, annunciando l’inizio dell’era della “ambiguità nucleare“, in cui “arricchiremo al livello che preferiamo”; il 13 luglio, sul popolare canale youtube Khate, l’esperto di sicurezza Abolfazl Bazargan era andato anche oltre, spiegando in diretta che l’Iran dovrebbe non solo dotarsi di una bomba ma “effettuare il prima possibile” dei test nucleari, insistendo sulla dimensione della deterrenza.

“Una bomba atomica non è fatta per essere usata ma per scoraggiare un attacco straniero“, ha spiegato Bazargan, soffermandosi poi sull’inutilità, a questi fini, di un ordigno tattico. “Un ordigno tattico montato su un missile deve essere usato, e se lo usi contro una superpotenza devi aspettarti conseguenze dolorose”, ha continuato. “L’Iran deve testare una bomba atomica convenzionale che mostri il ‘fungo’, e dimostri al mondo la sua capacità di deterrenza, perché la sua stessa sopravvivenza ed il suo futuro dipendono da questa stessa bomba. Non si tratta più di una opzione ma di una necessità”, ha concluso, invocando poi un emendamento della famosa fatwa di Khamene’i contro gli ordigni nucleari.

Di avviso simile, una settimana prima, era stato il parlamentare Abolfazl Zorehvand, membro del Comitato di politica estera e sicurezza del Parlamento iraniano. “Ho sempre pensato alla necessità di una deterrenza ma per motivi religiosi sono sempre stato contro la bomba atomica. Tuttavia, oggi dobbiamo prestare particolare attenzione al concetto di soglia: dobbiamo mantenerci al di sotto di essa ma tenerci pronti a superarla in breve tempo, nel caso di un attacco straniero”, ha spiegato Zohrevand in prima serata. “Questa politica della soglia significa che in caso di attacco, dobbiamo poter costruire il maggior numero di bombe atomiche nell’arco di 48 ore”. È noto che l’Iran abbia già 400kg di uranio arricchito al 60%, cioè ad una percentuale molto vicina alla soglia in questione.

Come evidenziato da Narges Bajoghli su Foreign Policy, è anche la “maggioranza silenziosa” – quella parte della popolazione urbana, istruita e spesso apertamente critica verso le priorità geopolitiche della Repubblica Islamica – a rivedere oggi le proprie posizioni. Per anni, questa fascia della società ha messo in discussione le ingenti risorse destinate al sostegno delle milizie alleate in Libano, Iraq, Siria e Yemen, vedendo nella citata “profondità strategica” uno spreco rispetto ai bisogni interni. Tuttavia ora quella che appariva come un’ossessione ideologica dell’establishment sta acquisendo i tratti di una prudente lungimiranza, o perlomeno di una postura con una sua evidente logica.

Questo mutamento di percezione non è solo retorico. La risposta iraniana si muove ormai su un triplice binario: quello di una nuova e sempre più popolare convinzione che Teheran debba dotarsi di un ordigno nucleare che non aveva mai perseguito sul piano reale, così da dissuadere concretamente futuri attacchi, quello della generale accelerazione nella militarizzazione convenzionale e quello del generale rafforzamento della narrativa interna.

Sul piano militare, le notizie (ancora non confermate ufficialmente) dell’acquisto da parte di Teheran dei caccia cinesi J-10 – tra i più avanzati jet da combattimento prodotti da Pechino – segnerebbero un salto qualitativo nella capacità difensiva e offensiva dell’Iran. Dopo anni di embargo e restrizioni imposte dal regime di sanzioni internazionali, la Repubblica Islamica sembrerebbe sempre determinata a colmare il gap tecnologico che la separa dai suoi nemici regionali. Non si tratta di una corsa all’armamento fine a sé stessa, ma di una risposta a un’escalation che fa apparire Israele – anche agli occhi di chi ha sempre promosso un minore attivismo regionale iraniano – sempre più propenso all’azione diretta, al di fuori delle logiche di deterrenza tradizionali.

La saldatura tra pressione esterna e consenso interno è il paradosso su cui oggi si fonda la rilegittimazione dell’asse principalista – la corrente politica più oltranzista del sistema iraniano. Se negli anni passati essa ha fatto fatica a trovare legittimità presso una popolazione stremata dalla crisi economica, dalla corruzione e da una repressione sistematica dei diritti civili, oggi si ritrova quasi improvvisamente rafforzata, proprio in virtù della propria visione intransigente. Una visione che si presenta non più come frutto di una “paranoia ideologica”, ma come risposta realistica a una minaccia sempre più concreta, ormai tangibile.

Gli attacchi israeliani, lungi dall’avere indebolito il programma nucleare iraniano, sembrano avere avuto l’effetto contrario: accelerarne la legittimazione interna, e forse anche quella del regime stesso. Non necessariamente per una repentina convergenza sugli ideali della Repubblica islamica ma per una reale preoccupazione di carattere esistenziale, connesso all’integrità e alla sicurezza stessa del Paese.

L’illusione – o il calcolo? – di Tel Aviv, secondo cui colpendo duramente le strutture militari iraniane si sarebbe potuto innescare un movimento di protesta tale da portare a un “regime change”, appare oggi disattesa, arenatasi sulla realtà di un Paese che ha sempre intimamente rigettato gli “stimoli” esterni al cambiamento, sin dal colpo di stato contro il governo Mossadegh del 1953. Il rischio concreto, nell’ottica israeliana, è quindi quello di un rafforzamento del regime, sia sul piano dell’autorità interna sia su quello della sua proiezione strategica. Non perché le proteste siano scomparse – il malcontento resta comunque reale e probabilmente ancora diffuso – ma perché la dimensione della sicurezza nazionale, che per molti iraniani era secondaria, ha ripreso il centro della scena, relegando le questioni di libertà e giustizia sociale a uno sfondo che, per molti, oggi appare meno prioritario, o perlomeno più lontano.

Non è la prima volta che l’Iran assorbe uno shock esterno, riconfigurandolo in chiave interna. Il regime aveva già vissuto una fase – per molti versi fondativa nell’ambito del proprio nazionalismo e della rivoluzione stessa – di ricompattamento interno proprio nei suoi primi 8 anni di vita, coincisi con la guerra “imposta” contro l’Iraq. Ma ciò che distingue questa fase è la sua pervasività sociale, associata alla crescente polarizzazione internazionale.

Anche segmenti tradizionalmente più pacifisti e non particolarmente avvezzi alla retorica sul “Grande Satana”, iniziano a condividere l’idea che l’isolamento dell’Iran non sia solo una conseguenza delle scelte di Teheran, ma anche il frutto di un ordine regionale e globale che ha abbandonato il Paese al proprio destino, prima e durante il genocidio a Gaza, rispetto al quale Teheran è sembrata muoversi in totale solitudine. Il silenzio delle monarchie del Golfo, l’inazione di Mosca e Pechino nei momenti più critici e l’atteggiamento ambiguo dell’Europa, hanno contribuito a rafforzare un sentimento di solitudine strategica che rende la postura difensiva dell’establishment più comprensibile, e per molti quasi inevitabile, al cospetto di un nemico che sembra agire al di fuori di ogni logica di equilibrio.

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