Gaza: serve un intervento più radicale del mondo dell’arte? Rispondono artisti, curatori, giornalisti
- Postato il 2 ottobre 2025
- Arti Visive
- Di Artribune
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Qualche mese fa, quando ho visitato a Berlino la retrospettiva di Nan Goldin, ho guardato poi su YouTube il discorso che ha fatto in apertura della mostra: forte, commovente e molto contestato dalle istituzioni. Ho pensato che lei fosse per me una donna meravigliosa. Le opere d’arte non devono necessariamente avere argomento politico, perché le buone opere d’arte sono sempre politiche. Ma gli artisti, soprattutto quando sono famosi hanno una posizione privilegiata poiché possono prendere parola, hanno possibilità di avere un microfono. Quindi sì, serve un intervento più radicale nel mondo dell’arte rispetto alla tragedia in corso, che passi attraverso le posizioni e le parole di tutti coloro che hanno voce.
Chiara Camoni, artista

La domanda è urgente e complessa, ma cosa significa oggi un “intervento radicale”? E verso chi o cosa dovrebbe rivolgersi? L’arte non cambia le leggi, non detta norme, ma di certo dovrebbe partecipare a un dibattito culturale sui nostri impegni civili e valori. Credo siano necessarie misure e posizioni più decise nei confronti del governo israeliano, ma non penso sia mai utile recidere i legami con un Paese o un popolo. Purtroppo, la debolezza con cui affrontiamo la questione palestinese – che non si limita a Gaza – riflette anche le profonde fragilità delle nostre società, segnate da debolezze e contraddizioni. Penso che qualsiasi iniziativa rivolta ad arginare il genocidio in corso dovrebbe essere sostenuta, e che le trasformazioni avvengano quando cultura e società si incontrano. In questo senso, sì: serve un intervento più radicale del mondo dell’arte perché ciò che sta accadendo sta minando anche le stesse fondamenta delle nostre democrazie che diciamo di voler difendere.
Edoardo Bonaspetti, curatore

“L’arte non c’entra niente con la morte, con la distruzione, con la fame. Queste tragedie competono al potere, non agli artisti”. Lo ha detto Giancarlo Giannini a Venezia. Ogni giorno dall’etere mi viene fornita una motivazione per la quale sento che si debba agire per quel che si può e dinanzi alle affermazioni di cui sopra non rimane che riconoscermi, come artista, altro da quello. Entrando poi nello specifico, penso che di radicale ci sia già quel che sta accadendo in Palestina: lo sterminio totale, la devastazione incontrollata quotidiana, la morte degli innocenti, per cui quel che può l’artista non è d’essere radicale, ma per quel che gli si confà, artefice di qualcosa di disperatamente simbolico ed evocativo, confidando che la necessità d’agire in lui si manifesti ancora perché dotato d’empatia umana. Da molto tempo la realtà viene manipolata con efficacia tramite l’utilizzo di tutti i mezzi di comunicazione, probabilmente grazie al fatto che “la veloce e scaltra malafede” attinga a piene mani dagli strumenti della cultura, producendo in tal modo aberrazioni speculative molto efficaci. Da questo assunto credo che gli artisti possano e debbano utilizzare il loro potere, essere ancora protagonisti di quel che gli è dato d’essere, nel tentativo di sovvertire il destino che si sta prospettando: la pena, intendo la fine della ragione, del senso, della capacità di giudizio, della giustizia stessa. Agli artisti conviene darsi una mossa, altrimenti di loro, solo orpelli per cannibali.
Alessandro Bulgini, artista

“L’umanità è stata hackerata” ha scritto la giornalista turca Ece Temelkuran. Il volto della Crudeltà guarda impassibile la sofferenza umana della Striscia. L’opinione pubblica non ha più peso in questa sperimentazione totalitaria per la creazione di nuove controllatissime smart city e di lager a cielo aperto a fianco di lussuosi resort. Il linguaggio contagioso della guerra impera dall’inizio della pandemia in tutto l’Occidente: parole semplici, mortifere, faziose, volte alla rassegnazione. L’arte non ferma la mattanza, ma costruisce altri scenari e scava la coscienza con migliaia di micro-azioni delle quali una si è svolta ad Alghero, alla Galleria Bonaire Contemporanea. Un centinaio di artisti sono intervenuti con il rosso su cartoline che raffigurano Gaza. Stese su un filo con le mollette dei panni, chiunque poteva sostituirle con una banconota. In due giorni si è creato un tessuto fortemente partecipe e sono stati raccolti 7.210 euro donati all’Associazione “Ponti non Muri” per la gazawa “PaliHope”.
Manuela Gandini, giornalista

La domanda arriva fuori tempo massimo. Ormai è tardi, ed è fin troppo facile. Credo che, prima ancora di essere ciò che pensiamo di essere, dovremmo ricordarci di essere umani. Avremmo dovuto provare a immedesimarci da subito e usare la voce, o qualsiasi mezzo possibile, per schierarci contro questo genocidio, contro questo disumanesimo. Perché la Palestina non è solo una terra: è il nome stesso della libertà. È evidente che una parte del sistema dell’arte è completamente scollegata dalla realtà, o teme ripercussioni sulle proprie “carriere”. Ma la vita è fatta di scelte. Sempre. Per me l’arte è incisiva quando è militante.
Davide Dormino, artista

Il ritardo con cui ci poniamo la domanda è sintomo di un’anomalia culturale. L’universo nord-atlantico non ha mai interrotto, se non a slogan, la politica coloniale e predatoria che caratterizza la cosiddetta modernità, e il genocidio sistematico del popolo palestinese (la cui origine è nel 1948, val la pena ricordarlo) ne è la prova più evidente. Il mondo dell’arte avrebbe dovuto schierarsi da decenni. Oggi, con il clamore mediatico e la pulsione gregaria tipica del tempo, la questione sembra stringente anche in insospettabili frange della società. Le istituzioni culturali e noi operatori non abbiamo scuse: dobbiamo essere cristallini nella condanna del genocidio e agire di conseguenza. Agli artisti è data una doppia facoltà: il linguaggio artistico e quello civico. Se non sei un artista che agisce politicamente (sacrosanto) puoi essere un cittadino che agisce politicamente. L’alternativa, per tutti noi, è una miserabile prudenza, una colpevole astensione, una grigia irrilevanza.
Pietro Gaglianò, curatore

Interventi radicali, salvo smettere del tutto di lavorare, comunicare e consumare, non esistono. Dai grandi artisti — per me grande è semplicemente chi si riconosce tale ancor prima del successo — non mi aspetto proteste: le atrocità in Israele e Palestina, più che resistenza, guerra o genocidio, sono una competizione accelerata per lo sviluppo che, dopotutto, resta il nostro grande sponsor. Serve allora l’impegno di dipingere il conflitto dal dentro: accettare pubblicamente il proprio conformismo, mostrarne la meccanica del nostro insanguinato privilegio e rappresentarla. A volte questo significa capire, e persino glorificare con la nostra arte, “le fatiche” di quell’1%” e del suo staff (che poi include tutti noi, l’equalmente infame 9%) nella nostra impresa di sterminare una moltitudine che oggi serve più morta che viva. Non ci resta dunque che lavorare con entusiasmo e apertamente per il Male, e vedere poi come ci si sente.
Miltos Manetas, artista

Il mondo dell’arte, dopo quasi due anni di genocidio a Gaza, non ha rifiutato le forme di occupazione e colonizzazione che hanno responsabilità occidentali, ma ne è stato complice. In contesto italiano basti pensare alla recente mostra Mediterranea. Visioni di un mare antico e complesso organizzata da Leonardo Spa al MAXXI di Roma, o al Padiglione Israele alla Biennale Arte di Venezia 2024, chiuso grazie alle pressioni dell3 lavorator3 culturali. Spesso sono mostre che “parlano” di decolonizzazione e Sud Globale, mentre istituzioni e finanziamenti partecipano all’economia del genocidio. Se non interrompono i loro legami di complicità, tali istituzioni vanno abolite, non validate con operazioni di art washing come la prossima documenta16. Si è creata una distinzione netta tra lavorator3 (spesso precar3) che boicottano e organizzano forme autonome di cultura, e chi legittima un sistema fuori tempo massimo, che ha abdicato al ruolo critico dell’arte nei momenti in cui è più necessaria.
Sara Alberani, curatrice

Da mesi io e pochi altri portiamo avanti denuncia, dissociazione e attivismo sulla situazione a Gaza, soprattutto sui social. Il mondo dell’arte non è stato radicale: procede con inerzia, quando invece servirebbe forza e visione. Chi, se non intellettuali e operatori culturali, dovrebbe esporsi? Invece domina la paura di pestare i piedi a qualcuno. Per questo stiamo provando a unire persone, creare un collettivo e agire in modo radicale e deciso. Con la collaborazione di galleristi, presso Curva Pura a Roma, ci stiamo incontrando con chi ha avuto il coraggio di esporsi senza mezzi termini. Sarà un confronto costruttivo, orientato al da farsi. Non fermeremo il genocidio in atto da parte di Israele, né salveremo vite, ma l’epoca di un’arte non militante deve finire. Serve rumore, serve fastidio a un governo complice e silente. Deve restare chiaro, per generazioni: questo abominio non è stato compiuto in nostro nome. Basta!
Gaia Scaramella, artista

Nel 1945 il Museo di Malmö, in Svezia, divenne un rifugio durante la Seconda guerra mondiale per sei mesi, accogliendo centinaia di persone sopravvissute ai campi di concentramento nazisti, poi accudite da personale medico e dallo staff del Museo. Ricordiamo ancora oggi questo evento grazie all’artista Sven “X-et” Leonard Erixson, che in quell’anno dipinse il quadro Refugees at Malmö Museum, immortalando l’idea di Museo come luogo di cura, non solo di oggetti e opere, ma anche di persone, senza le quali non ci sarebbe nessun genere di cultura da conservare, tramandare e raccontare. Questo episodio ci fa riflettere probabilmente sulla disconnessione avvenuta in ambito istituzionale rispetto alle urgenze contemporanee, come quella del genocidio palestinese in corso a Gaza. Vedo invece l’impegno individuale di molte artiste e artisti, colleghe curatrici e curatori, che sono attivamente parte di movimenti e organizzazioni che non solo offrono aiuto e supporto, ma soprattutto usano le loro piattaforme per denunciare lo stato delle cose, evitando di normalizzare l’illegale atrocità degli eventi in corso.
Matteo Lucchetti, curatore

Santa Nastro
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