Fino al midollo: così dalla ricerca della “parte migliore di noi” è nato un progetto di cooperazione nel Kurdistan iracheno
- Postato il 21 febbraio 2025
- Cultura
- Di Il Fatto Quotidiano
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“In tutte le case del mondo c’è un bambino che piange alle sette di sera”. Nell’espressione popolare di una nonna, nell’idioletto di una singola famiglia, a volte si nasconde il senso di un lavoro. E di una missione. Fino al midollo, reportage insieme politico e personale è il manifesto di questa vocazione. Nel volume – pubblicato il 31 gennaio per i tipi di Castelvecchi nell’ambito di una iniziativa editoriale della Sagen, associazione salute ambiente genoma – Marta Verna e Ignazio Majolino ricostruiscono la nascita e lo sviluppo di un centro trapianti di midollo osseo nel Kurdistan iracheno. Verna è medico pediatra presso il centro trapianti di midollo pediatrico dell’IRCCS San Gerardo dei Tintori. Majolino è medico ematologo, già primario del centro trapianti di midollo dell’Ospedale San Camillo di Roma. Il curriculum non inganni: quella dei due medici è una riflessione civile, in forma di diario, sul portato sociale dei progetti di cooperazione internazionale in ambito sanitario, soprattutto se mirati al trasferimento di competenze e non soltanto di tecnologie. Perché, parafrasando il Furore di John Steinbeck, se il mio “saper fare qualcosa” e il tuo “non saperlo fare” insieme danno “sappiamo fare qualcosa”, allora la valanga si avvia, il movimento prende una direzione: “L’allargamento dei diritti e del benessere”.
Dall’idea di cooperazione all’invito degli esperti, dalla prima riunione a Roma alla partenza dal vecchio aeroporto di Istanbul, le due voci ricostruiscono il progetto alternando dettagli tecnici, considerazioni personali e riflessioni politiche. L’entusiasmo della vocazione lascia a volte spazio ai dubbi e alle difficoltà, i successi si alternano ai momenti di crisi e di messa in discussione. Nel ricordare la morte del piccolo Asas, la prima per il centro di Sulaymaniyah, Verna racconta il dolore, la paura, la responsabilità. Ma insieme, anche l’incontro con una dottoressa dell’Ospedale pubblico più vicino: “A quel punto lei mi abbracciò. Così. E dai bordi del suo velo che mi sfioravano le guance la sentii dire lo so, lo so, lo so. E dentro quel lo so c’era tutto. Che quel luogo era orribile. Che non volevo che il mio bambino morisse. Che anche lei avrebbe provato al mio posto a salvarlo. Che il bene e il male non sono egualmente distribuiti nel mondo. Che eravamo stanche. Ma soprattutto. Che eravamo dalla stessa parte”.
Alla fine, prevale il senso del fare. L’ottimismo della volontà. L’idea che si fa azione. Verna e Vian – pediatra ematologa formata per diventare responsabile del centro – nel 2017 salgono insieme sul palco di un convegno a Francoforte a presentare il progetto. E sono “bellissime”. “Ecco perché eravamo bellissime. Incarnavamo il senso del nascere per morire che ci toglie il fiato la sera. Quel senso che solo il prendersi cura degli altri può dare. Non esiste risposta più potente di questa, oltre ai figli, alla nostra altrimenti assurda e inaccettabile mortalità”. Così, da quel primo progetto di cura ne nascono altri, e la valanga si avvia: Kurdistan, Paraguay, Guatemala, Salvador. Fino all’Iraq, dove da pochi mesi è iniziato il lavoro in collaborazione con AVSI People for Development per l’apertura di un centro trapianto adulto-bambino a Mosul, città in fase di ricostruzione dopo le devastazioni dell’Isis.
L’Hiwa Cancer Hospital viene inaugurato nel 2016. È il primo centro trapianti di cellule staminali ematopoietiche di tutto il Kurdistan iracheno. Nei primi due anni di lavoro vengono realizzate più di cinquanta tra missioni in loco e periodi di training in Italia da parte dello staff locale. Oggi è del tutto autonomo, ma quando nel 2015 Majolino arriva per la prima volta in quell’ospedale – “un’insieme di corpi bassi” dove “nulla lasciava indovinare che si trattasse di un luogo di cura” – non ha certezze sulla riuscita del progetto. E non sa nemmeno quante difficoltà si presenteranno. Su tutte, l’incendio che all’inizio dell’anno distrugge il centro e le attrezzature. Ma anche la poca collaborazione di alcuni colleghi, poi allontanati dalle attività. Può contare solo sul suo team, sul desiderio di farcela dei curdi, sulla speranza che unisce. “Rivedo adesso le foto scattate in quei giorni, al momento del trapianto quando Ahmed, sdraiato sul letto di una dignitosa camera d’ospedale e circondato da tutti noi […], atteggia a V le dita della mano in segno di vittoria e una dottoressa curda sussurra una preghiera, le mani giunte e gli occhi umidi di pianto”.
Testimonianza e narrazione, professionalità ed emotività. In questo coro a due voci non c’è solo il ricordo del lavoro. C’è cosa significhi vivere per mesi in un Paese lontano, insieme a colleghi che diventano una famiglia (“Grande Famiglia Curda”). C’è il dato biografico di una maternità mancata che si fa maternità “orizzontale”. C’è l’incontro con lineamenti simili ai nostri, l’arrivo in un Sud del mondo che ricorda tutti i Sud del mondo. Ci sono i genitori che, proprio come i bambini, sono uguali ovunque. Ci sono i bazar di tappeti, il Chai caldo e il tempo che si prende e che gli diamo, c’è un negozio di abiti da sposa in un campo profughi. Ci sono i dettagli che danno senso a un viaggio. E poi, sopra tutto, c’è la parte migliore di noi. Ci sono le parti migliori di noi che riconoscono le parti migliori di loro. “Tutti abbiamo una parte migliore. Le nostre parti migliori salvano il mondo. Tutti salviamo il mondo”.
Fino al midollo sarà presentato domenica 23 febbraio alle 11.30 a Roma, al Centro culturale Ararat di Largo Frisullo
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