Fine Wine, una nuova fase tra correzione del mercato e riscoperta dell’esperienza
- Postato il 6 ottobre 2025
- Lifestyle
- Di Forbes Italia
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Il fine wine è da sempre un asset ibrido: bottiglia di piacere e bene da collezione, capace di coniugare emozione e investimento. Raro nella maggior parte dei casi, dal brand riconoscibile e dal prestigio indiscusso capace di evocare un territorio, una tradizione o un metodo, si muove in un mercato regolato da scambi secondari e indici come Liv-ex, che ne tracciano valore e liquidità.
Oggi però questo universo non è immune alla crisi più ampia che colpisce il consumo di vino. L’OIV stima la produzione mondiale 2024 a 225,8 milioni di ettolitri, il minimo dal 1961, mentre il consumo è sceso a 214 milioni di ettolitri (–3,3% sul 2023). Un calo strutturale che si riflette anche nel segmento più alto, già colpito dalla “correzione del lusso” registrata dal Knight Frank Luxury Investment Index (–3,3% nel 2024).
Dal boom all’hangover: un ciclo ribaltato
Il biennio 2020–2022 rimarrà come una delle fasi più euforiche della storia recente del fine wine. La pandemia, paradossalmente, ha alimentato la corsa al vino di pregio: con i consumatori bloccati a casa e dotati di nuova liquidità grazie a tassi d’interesse bassissimi, molti collezionisti hanno riversato capitali in bottiglie rare, viste non solo come piacere immediato ma come asset tangibile in tempi di incertezza. La domanda globale è esplosa: Champagne e Borgogna hanno toccato massimi storici, i rossi italiani di punta si sono affermati come alternativa più accessibile ai francesi, mentre il mercato secondario registrava record di volumi e prezzi.
Quell’ascesa, tuttavia, era destinata a non durare. A partire dalla metà del 2023, lo scenario macroeconomico ha cambiato tono: l’inflazione ha eroso il potere d’acquisto, le banche centrali hanno alzato i tassi e la liquidità facile si è ritirata. La fiducia dei compratori si è incrinata e il rally si è trasformato in un lento, ma inesorabile, deflusso. Oggi, i numeri raccontano con chiarezza la portata della correzione. A giugno 2025, il Liv-ex Fine Wine 100 segna un –4,9% dall’inizio dell’anno (311,6 punti), con un ulteriore –0,8% nel solo mese di giugno. Il Fine Wine 50, che segue i Premier Cru di Bordeaux, ha fatto ancora peggio: –7,4% YTD.
Il quadro complessivo
Le diverse aree del mercato hanno vissuto parabole divergenti. L’Italy 100 si conferma la più resiliente: –3,0% nel 2025, ma con una performance di lungo periodo ancora positiva (+12,2% negli ultimi cinque anni), a testimonianza di un comparto che, pur meno glamour di Bordeaux o Borgogna, ha saputo offrire continuità di valore. Lo Champagne 50 ha subito un calo moderato (–5,1% YTD) ma resta +19,9% a cinque anni, segno che la categoria ha mantenuto un appeal trasversale, sostenuto da maison di prestigio e da uno storytelling consolidato. La vera caduta libera è stata quella della Burgundy 150, emblema del rally pandemico: dopo rialzi vertiginosi, la correzione è stata la più dura, con un –30,2% in due anni, riportando i prezzi ai livelli pre-Covid.
Il quadro complessivo lo restituisce il Liv-ex 1000, che sintetizza oltre mille etichette globali: –24,1% in due anni, un vero e proprio “factory reset” del mercato. Dietro questa contrazione non c’è soltanto il fattore macroeconomico, ma anche la saturazione del ciclo: chi aveva comprato durante il boom ha smesso di inseguire ulteriori rialzi, mentre i nuovi ingressi si sono fatti più cauti.
In sostanza, ciò che sembrava un’ascesa inarrestabile si è rivelata una bolla correttiva: il boom del Covid ha anticipato in pochi mesi guadagni che avrebbero richiesto anni, e l’hangover che ne è seguito ha riportato gli indici su binari più realistici. Per il settore, questo ribaltamento non è necessariamente una tragedia: segna la fine di un ciclo speculativo e l’inizio di una fase in cui il valore del vino di pregio dovrà poggiare meno sull’euforia dei mercati e più sulla sostanza delle bottiglie, sulla loro provenienza e sulla loro capacità di offrire un’esperienza autentica.
La nuova regola: meno speculazione, più esperienza
Il crollo dei prezzi non ha solo colpito i portafogli dei collezionisti, ma ha inciso sulla stessa psicologia del consumo. La logica speculativa che aveva dominato negli anni del boom — comprare annate giovani in en primeur, lasciarle invecchiare per dieci o vent’anni e poi rivenderle a multipli più alti — appare oggi logora. La volatilità degli indici e la perdita di fiducia in un rialzo lineare hanno spostato le scelte verso strategie più immediate e tangibili.
Sempre più acquirenti preferiscono vini già pronti da bere, maturi, capaci di offrire un ritorno non solo economico ma anche esperienziale. Non è un dettaglio marginale: significa che il consumo torna al centro, dopo anni in cui la bottiglia era diventata quasi un titolo azionario. Il vino torna a essere bevuto e condiviso, non soltanto conservato come asset finanziario.
Su questa evoluzione pesa anche un fattore pratico: i costi di stoccaggio. In un mercato come quello britannico, conservare grandi collezioni significa sostenere una spesa di £1–1,50 per bottiglia all’anno solo per il mantenimento. Per chi possiede migliaia di bottiglie, l’onere si traduce in diverse migliaia di sterline annue, un costo difficilmente giustificabile se il valore di mercato delle etichette continua a scendere. Non sorprende quindi che molti preferiscano acquistare vini pronti da stappare, liberandosi dal fardello della conservazione a lungo termine.
Le nuove regole
Il contesto crea anche nuove opportunità. Bottiglie che nel 2022 sembravano irraggiungibili sono oggi accessibili con sconti del 30–50% rispetto ai picchi di ottobre di quell’anno. Per il collezionista accorto, significa poter accedere a icone storiche in condizioni di mercato straordinariamente favorevoli. Ma si tratta di una finestra che premia conoscenza e sangue freddo: distinguere tra annate sopravvalutate e annate sottovalutate, tra lotti ben conservati e stock secondari deteriorati, diventa oggi cruciale.
Un segnale importante viene dal mercato delle aste, che continua a dimostrare vitalità. Nel 2024, Sotheby’s ha totalizzato 114 milioni di dollari con 61 aste e oltre 21.000 lotti battuti. Tuttavia, il dato aggregato nasconde una trasformazione profonda: non è più il tempo delle corse indiscriminate a qualsiasi etichetta di prestigio. Oggi i compratori si concentrano su annate con reputazione consolidata, formati rari, provenienze garantite. La selettività è diventata la cifra distintiva di un mercato che, ridimensionatosi nelle cifre, è paradossalmente cresciuto in maturità.
In definitiva, la nuova regola del fine wine non è l’abbandono dell’investimento, ma la ridefinizione dei suoi parametri. Meno speculazione a lungo termine, più immediatezza; meno scommesse cieche, più ricerca di autenticità e qualità comprovata. Il collezionista contemporaneo non compra più un futuro incerto, ma sceglie un presente di valore certo.
Rischi e opportunità
Guardando al futuro immediato, il fine wine deve affrontare rischi strutturali che ne mettono alla prova la resilienza. Il primo è generazionale: le nuove fasce di consumatori, in particolare la Gen Z, bevono meno e in maniera diversa rispetto al passato. Non cercano più il vino come simbolo di status o come bene da accumulare, ma tendono a preferire altre bevande, spesso a basso o nullo contenuto alcolico. Questo apre una frattura rispetto ai modelli di domanda che hanno sostenuto il mercato negli ultimi decenni.
A ciò si aggiungono le tensioni geopolitiche e commerciali, con tariffe, dazi e incertezze che complicano i flussi di esportazione e rendono più difficile pianificare a lungo termine. Infine, il fattore climatico pesa sempre di più: tra siccità, gelate e fenomeni estremi, la produzione diventa più incerta e variabile, generando un’offerta irregolare e accentuando la disparità qualitativa tra annata e annata.
Eppure, accanto a queste ombre, emergono anche nuove opportunità. Il primo segnale positivo è che i prezzi si sono ormai ricalibrati: il mercato secondario offre un punto di riferimento più realistico e trasparente, consentendo un riposizionamento sano. La scarsità reale, accentuata dal crollo della produzione mondiale ai minimi storici, ridona valore intrinseco all’asset fisico: una bottiglia di grande vino non è replicabile né infinita, e questo resta un elemento capace di sostenere il mercato nel medio periodo. Ma soprattutto, il vero motore della ripresa sembra essere la centralità dell’esperienza.
I collezionisti e i consumatori di oggi non comprano più solo per speculare, ma per bere: vogliono bottiglie mature, pronte, annate verticali che raccontino un terroir, grandi bianchi e formati speciali che si prestino alla convivialità. In questo shift culturale il fine wine ritrova la sua anima originaria: non soltanto bene d’investimento, ma anche esperienza viva e immediata.
Il punto di svolta
In questo contesto, il segmento dei fine wines non può più essere visto soltanto come terreno di speculazione. Sta tornando a essere ciò che in fondo è sempre stato: un bene culturale, un oggetto di desiderio da vivere, un simbolo di identità e territorio. La fase di “normalizzazione” in corso, pur dolorosa, sta eliminando gli eccessi del passato e riportando equilibrio tra valore reale e prezzo di mercato.
A vincere nei prossimi anni saranno quei produttori e quei territori che sapranno interpretare con lucidità questa transizione. Non basterà più puntare sull’aura mitica di un’etichetta: sarà necessario proporre prezzi disciplinati e coerenti con le dinamiche del secondario, garantire trasparenza assoluta sulla provenienza e le condizioni delle bottiglie, e mantenere un’identità stilistica chiara, capace di dialogare con un pubblico globale sempre più esigente ma anche più giovane. In altre parole, il futuro del fine wine non risiederà più nelle plusvalenze facili di un mercato euforico, bensì nella capacità di offrire valore autentico: vini rari, tracciabili, culturalmente riconoscibili, e soprattutto godibili.
L’articolo Fine Wine, una nuova fase tra correzione del mercato e riscoperta dell’esperienza è tratto da Forbes Italia.