Festival di Cannes, sarà un’ottima annata? La visione scioccante di Sirāt e il mosaico di Sound of falling

  • Postato il 16 maggio 2025
  • Cinema
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Dopo un’apertura in sordina, cinematograficamente parlando, e l’ubriacatura del gran finale di Mission: Impossible, i primi titoli del concorso al 78° Festival di Cannes fanno ben sperare nella cosiddetta “ottima annata”. Perché c’è un en plein di qualità nei quattro film finora visti, a partire dal più sorprendente e assai scioccante Sirāt diretto dal giovane franco-spagnolo Oliver Laxe. Un’opera visionaria e monumentale che trasforma un road movie nel deserto marocchino in un viaggio iniziatico e lisergico verso un’apocalisse mistica.

Al centro è Luis (Sergi Lopez) che col figlio minore si mette alla ricerca della figlia smarrita da alcuni mesi dopo un rave in Marocco. La cerca presso un nuovo rave party in quel territorio impervio, affidandosi a foto della figlia che distribuisce ai ravers. Quando i militari marocchini interrompono il consesso per emergenze belliche, l’uomo si accoda a un gruppo di loro, inoltrandosi in un viaggio che si rivelerà epico, rivelatore, tragico.

Laxe, alla sua opera quarta di finzione, non fa sconti: trasporta lo spettatore a ritmi techno-industrial in un percorso folle e sconvolgente, una danza sufi contemporanea sulla perdita, sul confine labile tra vita e morte, sullo svuotamento del sogno a favore della trance psichedelica come forma di conoscenza. Da una tale visione si esce come spettatori diversi, “iniziati”, certamente scioccati. Auspicabilmente il film potrà ricevere qualche premio importante se M.dme Binoche e co sapranno apprezzarlo.

Senza toccare questo incredibile livello, è di valore anche Sound of Falling, secondo lungometraggio della tedesca Mascha Schilinski: un testo strutturato su mosaico arbitrario di epoche incentrato sulla vita di quattro giovani donne. Opera intrisa di mistero, di fantasmi, lunghissima e un po’ autocompiaciuta, elabora il tema della morte con grande consapevolezza dei codici filmici, riflettendo sul destino delle donne che preferiscono il suicidio a soprusi, violenze, prevaricazioni, in qualunque momento storico essi si esprimono.

Speculari in quanto parabole circolari, e purtroppo fallimentari dal punto di vista dei protagonisti, sono i due ottimi e rigorosi film dell’ucraino Sergei Loznitsa – Deux Procureurs (Due giudici) – e del franco-tedesco Dominik Moll – Dossier 137.

Il primo, adattato alla novella omonima di Georgy Demidov, riferisce al periodo delle purghe staliniane, siamo nel 1937, quando un giovane procuratore viene fortuitamente chiamato in difesa di un dissidente politico incarcerato che gli chiede di denunciare presso la procura generale di Mosca le ingiustizie e i soprusi a cui i prigionieri sono sottoposti. Il neo giudice, nutrito di senso della giustizia e di volontà ad applicare le “buone leggi” sovietiche, si impegna nell’incarico ma inevitabilmente si scontra contro il muro di un potere invalicabile, corrotto, oscurantista e ingannatore. Dramma di terribile attualità (purtroppo..), adotta un impianto teatrale, rigoroso, basato sulla centralità delle inquadrature e sui parchi movimenti di macchina, con attori di notevole statura recitativa, capaci di trasmettere con millimetrici movimenti la gravità del racconto.

È invece ambientato nel 2018 Dossier 137, ispirato alla vera storia che coinvolse cinque poliziotti in abusi di potere durante le manifestazioni parigine dei Gilets jaunes, che vede protagonista un’agente della IGPN, organismo disciplinare della polizia francese, alle prese con le indagini rispetto ai soprusi perpetrati dai colleghi. Un incarico ingrato, condotto sempre sul limite dell’omertà tanto dei testimoni quanto della polizia stessa, che la donna, anche madre, porta avanti con rigorosa professionalità unita a profonda umanità. La poliziotta, interpretata da un’intensa Léa Drucker, andrà a cozzare contro il circolo vizioso di burocrazie e devianze del sistema, esattamente come il giovane procuratore di Loznitsa. Noir denso e millimetrico, basato su una sceneggiatura pressoché perfetta, l’ottavo lungometraggio di Moll mette in scena il dark side della società contemporanea francese (ma non solo) attraverso un noir classico al passo del thriller umanista, che decisamente si eleva dal modello italiano di ACAB.

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Il Fatto Quotidiano

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