Femminicidio: quando l’uomo preferisce distruggere piuttosto che lasciare andare

  • Postato il 24 novembre 2025
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di Francesco Valendino

C’è una domanda che torna dopo ogni femminicidio. Perché l’amore si trasforma in furia, la passione in possesso, l’addio in condanna a morte? Perché certi uomini preferiscono distruggere piuttosto che lasciare andare?

La risposta sta molto più indietro. Nei miti che abbiamo respirato per millenni, nelle religioni che hanno plasmato il nostro immaginario collettivo, in quella struttura mentale che ha fatto del maschile la forza e del femminile il mistero da conquistare.

Quando Martina Carbonaro è stata uccisa da un ragazzo che non accettava di essere lasciato, quando Filomena Bruno è morta per aver difeso la libertà di sua figlia, quando Giulia Cecchettin ha pagato con la vita la sua autonomia, non sono morte solo loro. È morta la stessa antica paura: quella del vuoto, dell’abbandono, della perdita di sé. Gli antichi Greci l’avevano già raccontato. Ade rapisce Persefone perché non sopporta la solitudine. Non è amore, è terrore del vuoto. Orfeo si volta per controllare Euridice e la perde per sempre. Apollo insegue Dafne che si salva solo diventando albero. Narciso non vede Eco, ama solo la propria immagine.

Sono storie di tremila anni fa, eppure le viviamo ancora oggi. Perché quegli archetipi hanno costruito un modello di maschile che identifica l’amore con il possesso, la cura con il controllo, la passione con la conquista. Un modello che il cattolicesimo ha poi rafforzato: Eva la tentatrice che porta al peccato, Maria la santa che tace e obbedisce. Tra colpa e santità, alla donna non è rimasto spazio per essere semplicemente se stessa.

E l’uomo? L’uomo occidentale è cresciuto credendosi custode, giudice, salvatore. Ha imparato che l’amore “vero” non finisce mai, che “finché morte non vi separi” è un vincolo sacro, che conquistare una donna è una vittoria e perderla un fallimento. Non gli hanno insegnato a piangere, a parlare del dolore, a gestire il rifiuto. Gli hanno insegnato solo ad essere forte. E quando la forza non basta più, resta solo la rabbia.

Eppure basterebbe guardare altrove per capire che si può amare in modo diverso. Nelle culture orientali, l’amore non è battaglia ma armonia. Nel Taoismo, lo Yin e lo Yang danzano insieme senza che uno debba dominare l’altro. Nel Buddhismo, amare significa non possedere, accettare che tutto cambia, che la perdita fa parte della vita. Nell’Induismo, Śiva e Śakti si uniscono e si separano continuamente, in un respiro cosmico dove nessuno dei due appartiene all’altro. Sono visioni che l’Occidente fatica ancora a comprendere. Perché noi abbiamo fondato l’amore sull’illusione della permanenza, loro sull’accettazione del cambiamento. Per noi, l’amore finito è fallimento. Per loro, è ciclo naturale. E questa differenza ha conseguenze concrete: l’uomo che non sa lasciare andare diventa pericoloso.

La verità è che molti uomini non sopportano la libertà dell’altra persona perché identificano se stessi con quella relazione. E allora, nella loro mente distorta, se devono morire preferiscono portarla con sé. Non è amore, è panico identitario.

Ma forse c’è una via d’uscita. Forse rieducare il maschile non significa annullarlo, ma riconciliarlo con ciò che ha sempre temuto: la vulnerabilità, il silenzio, l’arte di lasciar andare. Insegnare ai ragazzi che piangere non è debolezza, che perdere non è fallimento, che l’altra persona non è un’estensione di sé ma un universo autonomo da rispettare. Significa imparare dal pensiero orientale ciò che l’Occidente ha dimenticato: che l’amore vero non trattiene, accoglie. Non possiede, accompagna. Non controlla, si fida. E quando finisce, non distrugge. Ringrazia per il cammino fatto insieme, e lascia che ognuno prosegua la propria strada.

Solo allora l’amore smetterà di avere paura della propria fine. E finalmente potrà rinascere come quello che dovrebbe essere da sempre: non un abisso in cui sprofondare, ma un cielo in cui volare liberi, insieme, finché dura. Perché il vero contrario dell’amore non è l’odio. È il possesso.

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Il Fatto Quotidiano

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