Esso, 425 milioni per un castello di carta: il caso che spaventa banche e lavoratori
- Postato il 13 settembre 2025
- Business
- Di Forbes Italia
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di Antonio Sarcina
Quello che è stato salutato come un trionfo patriottico, il ritorno della rete Esso in mani italiane, a uno sguardo più attento appare tutt’altro. La cessione da parte di Eg Group di circa 1.200 stazioni di servizio a marchio Esso a un consorzio di famiglie imprenditoriali italiane, Pad Multienergy, Vega Carburanti, Toil, Dilella Invest e Giap, per 425 milioni di euro non è un’operazione di rilancio industriale, ma piuttosto un brillante esercizio di ingegneria finanziaria. I fratelli Issa e il fondo Tdr Capital hanno dimostrato ancora una volta la loro abilità: monetizzare un asset indebolito al prezzo più alto possibile, lasciando che siano altri a sopportarne le conseguenze.
Il contesto
Per comprendere il senso dell’operazione bisogna guardare al contesto. Eg Group è il prodotto per eccellenza dell’epoca dei tassi a zero. Nato nel 2016 dalla fusione di Euro Garages con European Forecourt Retail Group, il gruppo ha costruito in meno di dieci anni un gigante da oltre 24 miliardi di dollari di ricavi, basato su acquisizioni a leva e sull’inserimento di marchi globali come Greggs e Starbucks nelle aree di servizio. Oggi però quel modello mostra la corda: il debito netto ha superato i 5,3 miliardi di dollari, pari a quasi cinque volte l’Ebitda, e il gruppo è sotto pressione da parte di un ampio sindacato di banche e investitori istituzionali che ha finanziato i suoi prestiti e le sue emissioni obbligazionarie.
Non sorprende, dunque, che la priorità dichiarata da Zuber Issa al Financial Times sia oggi il deleveraging. Non a caso, all’interno della società si discute se procedere con una quotazione negli Stati Uniti. Nel frattempo Eg ha già venduto la controllata australiana ad Ampol e ha scelto di dismettere l’Italia.
La cessione italiana
Il problema è che la cessione italiana poggia su fondamenta fragili. Dal gennaio 2026, secondo fonti di settore e sindacali, le Esso Card, che generano fra il 20 e il 25% dei volumi complessivi della rete (ancora di più lungo le autostrade), passeranno a Q8. In termini concreti significa che un quarto del fatturato atteso evaporerà dall’oggi al domani.
In queste condizioni, molti impianti non riusciranno a coprire i costi fissi, saranno costretti a chiudere e i costi delle bonifiche ambientali ricadranno inevitabilmente sugli acquirenti. Eppure il consorzio ha accettato di pagare 425 milioni di euro per una rete in gran parte affittata, senza consistenza patrimoniale reale, con volumi in calo strutturale e con davanti a sé la necessità di sostenere ulteriori e massicci investimenti in capex. È difficile non definire questa valutazione come gonfiata.
Le prime reazioni in Italia non si sono fatte attendere. Le due più importanti sigle sindacali del settore, Faib e Fegica, parlano di rischi concreti di migliaia di licenziamenti e di un colpo durissimo per l’intero comparto. Le banche chiamate a finanziare l’operazione si trovano davanti a un business plan che appare più vicino alla narrativa che alla realtà: margini compressi, collaterali in deterioramento e covenant difficilmente rispettabili. Il pericolo è che, come già accaduto in passato in altre operazioni speculative, ci si ritrovi con una nuova generazione di crediti deteriorati nei bilanci bancari. Per gli istituti di credito il rischio è chiaro: trasformare un’operazione celebrata come patriottica in una nuova fabbrica di npl
La natura stessa del consorzio acquirente aumenta i dubbi. Pad Multienergy, Vega Carburanti, Toil, Dilella Invest e GIAP rappresentano operatori regionali con interessi non sempre convergenti. Più che un campione nazionale, rischiano di trasformare la rete in uno “spezzatino” di feudi locali, con governance frammentata e poche sinergie reali.
Il mercato
Nel frattempo, Eg Group si sfila con tempismo chirurgico. In questi otto anni, i fratelli Issa hanno spremuto al massimo i margini della rete italiana, approfittando di un mercato che allora godeva ancora di rendimenti elevati e di condizioni finanziarie irripetibili. Oggi quei margini sono in contrazione e la transizione energetica sta erodendo alla radice il modello dei carburanti fossili. Eppure Eg riesce a vendere l’Italia a un prezzo vicino al doppio rispetto a quanto aveva pagato nel 2015, quando lo scenario era molto più favorevole. È un’uscita che consente loro di alleggerire un debito ormai ingestibile e di guadagnare tempo in vista della quotazione americana.
Per l’Italia, invece, il rischio è opposto: un’operazione fragile, dal business plan già di per sé tirato all’estremo e reso quasi insostenibile dalla perdita imminente delle Esso Card. Quello che viene presentato come un successo nazionale potrebbe trasformarsi in un boomerang per i compratori, un incubo per le banche e una tragedia sociale per i lavoratori.
Lontano dall’essere un’operazione di ritorno strategico, il dossier Eg rischia di entrare nei manuali non come esempio da seguire, ma come monito: un caso lampante di come non si dovrebbe mai fare m&a.
L’articolo Esso, 425 milioni per un castello di carta: il caso che spaventa banche e lavoratori è tratto da Forbes Italia.