Droni russi in Polonia, per me la strada giusta è duplice: non cedere alle provocazioni, né smettere di sostenere Kiev
- Postato il 16 settembre 2025
- Blog
- Di Il Fatto Quotidiano
- 4 Visualizzazioni
.png)
L’episodio dei droni russi penetrati nello spazio aereo polacco ha scatenato un’ondata di polemiche a casa nostra. I commentatori filo-putiniani hanno subito cercato di minimizzare. Ricordando passate accuse sbagliate ai russi, citando il caso del GPS della von der Leyen o quello del Nord Stream 2, denunciando la presunta “propaganda bellicista insopportabile” dell’Occidente, costoro paiono insinuare che i droni sulla Polonia non fossero droni, o non fossero russi, o non fossero armati, o non fossero entrati in Polonia, o vi fossero entrati “per errore”.
Ma la realtà è testarda: quei velivoli, russi e armati, erano diciannove, lenti, guidati da operatori; e hanno percorso centinaia di chilometri nello spazio aereo di un Paese Nato. A questo punto, la domanda cruciale è: perché il Cremlino ha autorizzato una mossa tanto rischiosa e apparentemente priva di senso?
Una delle spiegazioni più ricorrenti è che i droni siano stati inviati per “saggiare” le difese occidentali. Ma questa ipotesi non convince. Nessuno compie un gesto così dirompente solo per raccogliere dati che si possono ottenere in mille altri modi. Se eliminiamo le spiegazioni assurde e quelle fragili, l’ultima che rimane è: una provocazione deliberata.
A quale scopo? La risposta si trova nella guerra in Ucraina. La propaganda russa racconta un’armata invincibile, sempre in avanzata. La verità è opposta: i progressi territoriali degli ultimi dodici mesi sono stati minimi e pagati a un prezzo altissimo in uomini e mezzi. Le sanzioni internazionali e lo sforzo bellico hanno fiaccato l’economia. Le banche, tecnicamente fallite per i crediti inesigibili, sopravvivono solo grazie alla liquidità della Banca centrale. Le fabbriche mancano di manodopera (e ricorrono a 30.000 lavoratori nordcoreani in semi-schiavitù). Le casse pubbliche sono in rosso, il deficit cresce. Come ha scritto un blogger russo, “non è che tutto stia filando liscio”: città in coda per ore alla ricerca di carburante, proteste spontanee in varie regioni, reduci disillusi che alimentano la criminalità, stipendi militari pagati in ritardo, carceri ormai vuote che non forniscono più reclute.
A questo quadro fragile si è aggiunto un nuovo fattore devastante: i bombardamenti ucraini alle raffinerie russe. Hanno lasciato il Paese a secco di benzina, creato file interminabili ai distributori e paralizzato la logistica interna. L’ultimo colpo, di portata strategica, ha riguardato il terminal petrolifero di Primorsk, vicino a San Pietroburgo, da cui passano ogni anno 60 milioni di tonnellate di greggio, per un valore di circa 15 miliardi di dollari. Considerato che lo sforzo bellico costa almeno 25 miliardi l’anno, il danno è colossale. E come se non bastasse, sui mercati internazionali il prezzo del petrolio continua a calare, privando la Russia di risorse vitali.
In questa cornice di difficoltà economiche e militari si capisce la logica delle provocazioni. Putin sa che la sua sopravvivenza politica, e forse fisica, è a rischio se l’avventura ucraina finisce in disfatta. È all’angolo, e quando un leader autocratico si sente messo alle strette, gioca carte sempre più pericolose. Da anni coltiva un’ossessione per le armi nucleari, viste come l’asset supremo della Russia. Non intende usarle in Ucraina – sarebbe un suicidio politico e militare – ma vuole che il mondo ne percepisca il peso.
La sua strategia punta a creare una situazione di altissimo rischio nucleare senza arrivare all’impiego reale delle testate. Un conflitto limitato con la Nato – scambi di missili convenzionali, colpi di artiglieria, provocazioni nei cieli – basterebbe a seminare panico nelle opinioni pubbliche occidentali e a spingere i governi verso negoziati favorevoli a Mosca.
È una strategia disperata, pericolosissima. E in Occidente non mancano voci che, in buona fede, invocano “pace a ogni costo” o temono l’escalation. Ma accettare le condizioni del Cremlino – la sottomissione dell’Ucraina, la legittimazione delle conquiste territoriali – equivarrebbe a consegnare ai fascisti di tutto il mondo un messaggio chiaro: l’aggressione paga.
Al contrario, la strada giusta è duplice: non cedere alle provocazioni, ma nemmeno arretrare su – anzi aumentare – il sostegno a Kiev. Vuol dire evitare risposte affrettate – come inviare truppe in territorio ucraino o proclamare no-fly zone improvvisate – che darebbero a Putin il pretesto per alzare la posta. Ma significa anche non concedere scorciatoie diplomatiche che regalerebbero al Cremlino ciò che non ottiene sul campo.
Putin e il nazionalismo imperiale russo devono essere sconfitti. Vuol dire ritiro, ripristino dei confini legittimi, fine dell’aggressione. Solo così la Russia potrà, un giorno, guarire dal virus del suo imperialismo.
E la “faccia” di Putin? Alcuni pacifisti dicono che dobbiamo salvarla noi. In realtà, ha mille modi per farlo senza ottenere sottomissioni: può convocare conferenze di pace, sbandierare accordi sugli armamenti, inventare gesti unilaterali. Le uscite simboliche non mancano.
In questo quadro cupo, un punto fermo arriva dall’Italia. Il presidente Sergio Mattarella ha sempre ricordato che il sostegno all’Ucraina non è un capriccio, ma un interesse nazionale, perché il diritto internazionale è il fondamento del nostro stesso benessere. Se crolla la regola che vieta le aggressioni e tutela i confini, nessun popolo può dirsi al sicuro. Ora Mattarella avverte: “Siamo sull’orlo del baratro”. Non è un invito al panico, ma un richiamo alla lucidità: l’unico modo per sottrarsi al ricatto nucleare e alle provocazioni del Cremlino è non cedere. La pace non si costruisce piegandosi alla prepotenza, ma difendendo con fermezza il diritto violato.
L'articolo Droni russi in Polonia, per me la strada giusta è duplice: non cedere alle provocazioni, né smettere di sostenere Kiev proviene da Il Fatto Quotidiano.