Don Chisciotte ad ardere: il Teatro delle Albe sceglie la chiave metateatrale
- Postato il 17 agosto 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Nonostante una scrittura torrenziale e spesso trasandata (pare che Cervantes non amasse rileggersi), Don Chisciotte dimostra da quattro secoli di avere molte frecce al suo arco quanto a disponibilità alla scena. Come confermano del resto le innumerevoli riduzioni teatrali, operistiche, ballettistiche e cinematografiche.
In primo luogo, ovviamente, un protagonista, il Cavaliere dalla Triste Figura, che si impone subito come un personaggio universale, più importante del romanzo che lo contiene e del suo stesso autore, entrando stabilmente nell’immaginario collettivo, come e persino più di altre figure archetipiche: Don Giovanni, Faust, Amleto.
Il secondo punto di forza è rappresentato dal duo Don Chisciotte-Sancho Panza, opposti e complementari già nelle fisionomie: una vera e propria coppia comica, che anticipa quella circense del Bianco e dell’Augusto, affondando le sue radici nella commedia classica e nella farsa medievale.
C’è poi la vivacità dei dialoghi (non a caso l’autore era anche un drammaturgo), per molti critici (fra i quali Nabokov) la cosa migliore del romanzo dal punto di vista letterario. Infine, Don Chisciotte è, fra le tante altre cose, un susseguirsi di scene teatrali già belle e pronte, che aspettano solo di essere mostrate a degli spettatori. Qui tutti si travestono, mutano identità e anche genere, recitano parti che non sarebbero le loro. A cominciare dallo stesso protagonista, il quale un bel giorno decide di abbandonare la sua vita tranquilla di gentiluomo di campagna per rinverdire i fasti della cavalleria errante.
Questa premessa mi è sembrata necessaria per poter parlare dell’operazione che il ravennate Teatro delle Albe ha portato a termine poche settimane fa, presentando in un’unica soluzione le tre “ante” dello spettacolo Don Chisciotte ad ardere, un progetto triennale che li ha visti impegnati fra 2023 e 2025. Questo progetto, come quello precedente sulla Divina Commedia, si è avvalso della partecipazione di tanti cittadini ravennati (e non solo) convocati con il sistema della “chiamata pubblica”.
Chiarito che è, di conseguenza, la coralità la cifra più perspicua del lavoro, va aggiunto subito che, rispetto ai punti di forza teatrali elencati sopra, Marco Martinelli e Ermanna Montanari non optano per nessuno di essi in particolare, scegliendo di tenersi distanti dal romanzo, da cui quasi mai si cita alla lettera e nei confronti del quale ci si prendono continue libertà di contenuto. A cominciare dal fatto che, contrariamente alla scelta di Cervantes di non farla mai comparire, qui Dulcinea del Toboso, la fanciulla di cui è invaghito (platonicamente) l’hidalgo, è sempre presente in scena, insieme a Don Chisciotte e al suo scudiero, col quale battibecca spesso.
Ma in realtà – ecco una chiave dello spettacolo – in scena vediamo tre attori, con i problemi della loro professione, i cui nomi riprendono in forma spagnoleggiante quelli dei bravi interpreti reali: Roberto Magnani (Don Chisciotte), Alessandro Argnani (Sancio Panza) e Laura Redaelli (Dulcinea del Toboso). Scegliendo la chiave metateatrale, le Albe esplicitano a modo loro la già ricordata teatralità del romanzo, dove del resto non mancano momenti di vero teatro nel teatro. Come nel caso dei burattini di Mastro Pietro, distrutti dal protagonista in preda a uno dei suoi accessi di follia.
Ma c’è pure una seconda chiave, che serve a creare una cornice più ampia dentro cui collocare l’intero evento teatrale, e non soltanto i personaggi di Cervantes. Ed è quella del viaggio, a cui si chiede a noi spettatori di partecipare in quanto “erranti”, sì proprio come il Don, con la guida di due maghi, Marcus ed Ermanita, interpretati ovviamente da Martinelli e Montanari. Si tratta nello stesso tempo di un viaggio fisico, che porterà gli spettatori attraverso quattro luoghi diversi, ma anche e soprattutto di un viaggio della mente attraverso un mondo fatto di violenze, ingiustizie, povertà, guerre: quello di Cervantes di quattro secoli fa ma anche il nostro odierno, purtroppo. E tuttavia l’essere umano, di cui il cavaliere errante rappresenta un ideale prototipo, conserva delle risorse, antidoti all’orrore che sembra soverchiarci continuamente: il sogno, la finzione, la poesia, la bellezza.
Non a caso l’itinerario inizia in una grotta, quella di Montesinos, dove Don Chisciotte vive una delle esperienze più incredibili del romanzo, trasformata nel luogo in cui “si cuciono, scrivono, disegnano, cantano i sogni”. In realtà si tratta del settecentesco Palazzo Malagola, che gli spettatori a piccoli gruppi possono perlustrare in tutti i suoi suggestivi recessi, incontrando “visioni” di ogni tipo. E finisce, dopo due stazioni en plein air, in un’altra grotta, in realtà un teatro (il Rasi), luogo deputato alle apparizioni e ad altre magie.
Alla fine il nostro eroe non si ravvede, come accade invece nel romanzo, e muore restando saldo nei suoi ideali cavallereschi. Perché, chiamateli pure illusioni, chimere, follie, se volete, ma se ci togliete anche i nostri ideali, che cosa ci resta?
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