Divagazioni su Renan, Wagner e altre allucinazioni: perché la condanna morale riguarda solo alcuni grandi

  • Postato il 13 dicembre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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La ricerca pluriennale, culminata nel saggio Divagazioni su Renan, Wagner e altre allucinazioni (Ei Editori, 2025), è stata un viaggio entusiasmante, intrapreso con mio padre, Francesco Maiello, antropologo e grande appassionato del compositore di Lipsia. Scandagliando la vasta letteratura critica dedicata a Richard Wagner – al quale si dice sia stato dedicato un numero di volumi pari a quello scritto su Gesù e Napoleone – la nostra indagine ha assunto una traiettoria inattesa. Ci siamo infatti imbattuti in una costante, divenuta uno dei punti nodali della nostra analisi, rappresentata (a partire per lo meno dal 1945 in poi) da una certa aura di persistente ostilità, filtrata in gran parte della saggistica dedicata al genio tedesco. Ne sono scaturite alcune riflessioni cruciali, focalizzate su un’evidente disparità di giudizio etico e sulla pretesa che Wagner, a differenza di altri, dovesse possedere una sorta di “unicità morale”, fino al punto di doversi sottrarre al quadro concettuale e ideologico del suo tempo.

Il primo interrogativo che ci si è parato innanzi è stato: perché? Perché una sorta di condanna morale, anteposta a ogni discussione o possibile valutazione sul Maestro di Bayreuth? Questo interrogativo, infatti, non affligge altri giganti della cultura, non sottoposti a un giudizio così pervasivo e persecutorio. Anche in quelle che appaiono vere e proprie celebrazioni artistiche, è impossibile non avvertire un’aria di diffusa ostilità che trasuda da saggi sistematicamente disseminati di forme dubitative e congiunzioni avversative (come ‘però, nonostante’) volte a gettare un’ombra sinistra su tutto ciò che riguarda la vita di Wagner. Una disparità di metodo incomprensibile se si pensa che non esistono centinaia di volumi dedicati alla riprovevole condotta morale di Rousseau, reo di aver allontanato i figli avuti con una moglie ridotta praticamente in schiavitù, né alle nefandezze di Victor Hugo.

Non si trovano, d’altronde, altrettanti volumi volti a confutare la figura di Dostoevskij come presunto pedofilo e giocatore compulsivo, né ci si è accaniti contro l’indegna condotta di Claude Debussy nei confronti della moglie. Analoga clemenza è stata riservata al promiscuo Giacomo Puccini, o al dissoluto Gioachino Rossini. Neppure i comportamenti di figure come il Mahatma Gandhi, che sottopose a esperimenti sul celibato le sue giovani compagne, o di giganti della scienza come Einstein, che maltrattava più che emotivamente la moglie, si sono tradotti in una “perenne persecuzione intellettuale”. È un po’ come se per tutti si usasse dire: “Era un grande, anche se aveva un brutto carattere”; per Wagner, al contrario: “Era un mostro, che però, guarda caso, ha scritto della musica sublime”.

Un certo accanimento specifico deriverebbe, secondo alcuni, dall’attribuzione a Wagner della responsabilità morale e storica di aver ispirato il Nazismo, come se i suoi testi filosofici o i suoi drammi detenessero la capacità causale di scatenare un’apocalisse del genere. Secondo questa logica (o principio di prefigurazione storica e successiva strumentalizzazione delle idee), Verne, che nei suoi romanzi descrisse con agghiacciante precisione la guerra totale, potrebbe serenamente essere ritenuto responsabile degli orrori del XX secolo. O ancora H.G. Wells, che nel 1914 inventò in un suo libro la “bomba atomica”, dovrebbe essere l’ispiratore della catastrofe nucleare. E che dire di Niccolò Machiavelli, le cui teorie sul potere sono state studiate e applicate da tiranni di ogni epoca, o di Nietzsche, strumentalizzato apertamente per giustificare pratiche che il filosofo non avrebbe probabilmente approvato?

Un conto è la lucidità profetica di certi autori, o ciò che possono sinistramente augurarsi in un momento di rabbia e delusione; altro è ritenerli responsabili di cose accadute post mortem, attribuendo loro il potere di alterare il corso di macro-eventi che la storiografia moderna ha ampiamente dimostrato non poter dipendere da singole figure, dato che, al contrario, sono piuttosto le grandi dinamiche sociali, economiche e politiche a influenzare gli uomini e le loro azioni.

In merito alla seconda questione, ovvero il “sottrarsi al proprio tempo”, anche ammesso che questa visione di un Wagner “stregone proto-nazista” fosse vera, ci si interroga sul perché tale accusa sia scagliata, con tale veemenza, esclusivamente contro di lui, sorvolando ad esempio sul profondo antisemitismo e razzismo di compositori come Čajkovskij, Mussorgsky o Strauss. E cosa dire di Kant, la cui antropologia non è certo esente da teorie notoriamente razziste? Similmente, potremmo citare Voltaire, sul quale non risultano migliaia di pubblicazioni volte a ricordare le sue posizioni razziste e apertamente antisemite. Né si applica lo stesso metro a premi Nobel come Pirandello, che aderì apertamente al fascismo nel 1924.

E perché mai, quando si cita Dante Alighieri, non si ricorda sistematicamente il suo parziale antisemitismo e le sue invettive contro determinate categorie sociali e politiche? Perché gli scritti misogini e reazionari di Baudelaire o Honoré de Balzac non vengono continuamente evocati per screditare questi due grandi scrittori? E come si può sorvolare su Louis-Ferdinand Céline, autore di feroci pamphlet antisemiti e collaborazionista durante l’occupazione nazista? Un “trattamento di favore” che si estende persino a intellettuali come T.S. Eliot, Emil Cioran e Mircea Eliade, i quali manifestarono un’aperta adesione al nazismo e all’antisemitismo.

Alla fine dei conti, tutto ciò che abbiamo tentato di fare nel nostro lavoro è stato ricordare ancora una volta che anche nella storia tout-court e in quella biografica, problemi complessi non ammettono risposte semplici. Richard Wagner è un pianeta, un nucleo culturale e storico di vastissima portata, crocevia di questioni epocali che rendono del tutto marginale l’ossessione per il suo carattere o per la sua adesione a idee diffuse al suo tempo.

Da parte nostra accogliamo la lezione di Carlo Sini, il quale ricorda che la ricerca non è un tribunale della coscienza moderna su cui proiettare le nostre ansie contemporanee. Al contrario, essa esige la ricerca di una profonda connessione contestuale: l’indagine della cornice storica, intellettuale e sociale entro la quale le sue dinamiche hanno realmente avuto luogo. Diversamente, ci si trastulla con i giocattoli sbagliati.

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Il Fatto Quotidiano

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