Disagio mentale: soggetti pericolosi ma liberi. La falla che mette a rischio tutti noi

  • Postato il 23 novembre 2025
  • Di Panorama
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Un uomo che passeggia tra i grattacieli di Milano con un coltello in tasca e che, pochi minuti più tardi, userà quell’arma per aggredire una persona scelta a caso. L’immagine delle telecamere di piazza Gae Aulenti, dove lunedì 3 novembre il 59enne Vincenzo Lanni ha accoltellato la dirigente di Finlombarda Anna Laura Valsecchi (ferita gravemente ma non in pericolo di vita), ci restituisce una fotografia spietata del cortocircuito tra medicina, giustizia e società.
Lanni, infatti, 10 anni fa aveva già accoltellato due anziani in provincia di Bergamo. Condannato a 8 anni di carcere e dichiarato parzialmente incapace di intendere e di volere perché affetto da un disturbo schizoide della personalità, trascorre cinque anni in cella, poi due di affidamento in prova e altri due di libertà vigilata. Dopo questo percorso, il 4 dicembre 2024 un magistrato del Tribunale di sorveglianza di Varese firma una relazione di tre pagine nella quale «dichiara cessata la pericolosità sociale» e revoca la misura di sicurezza della libertà vigilata. Lanni torna a essere un uomo libero: pochi mesi dopo, ecco il dramma di piazza Gae Aulenti.

L’eredità della legge Basaglia

A più di quarant’anni dalla legge Basaglia, che ha abolito i manicomi, ci ritroviamo indifesi davanti alla follia che gira per le nostre strade e può avere le sembianze di chiunque. Come possiamo proteggerci, e dove ha sbagliato il sistema?

Il nodo delle diagnosi psichiatriche

Non è facile da stabilire. «La malattia mentale e la giurisprudenza non vanno mai d’accordo», dice a Panorama Fabrizio Mignacca, psicologo psicoterapeuta e consulente del Tribunale. «I giudici spesso non riescono a inquadrare correttamente i disturbi della personalità, perché sono molto sfumati e racchiudono così tante scale di grigio che non sempre c’è la possibilità di comprendere la reale entità dei problemi. Il disturbo schizoide è insidioso: sembra che il soggetto sia consapevole di sé, in realtà non lo è. L’impulso domina, e può tradursi in atti disastrosi. Probabilmente il quadro non era chiaro e la diagnosi forse troppo generica».

Quando il sistema fallisce

Nel caso di Lanni molte cose non hanno funzionato. La fortuna che stavolta ha aiutato Anna Laura Valsecchi non era servita a salvare, solo tre anni fa, il boliviano Luis Ruggieri, ucciso a colpi di coltello al Carrefour di Assago da Andrea Tombolini, che nella stessa occasione aveva ferito altre cinque persone. Anche allora c’era all’origine un disturbo psichiatrico, con ricoveri pregressi.

Sono solo due esempi di quanto la malattia mentale possa minare la sicurezza della società. «Assistiamo a un aumento costante dei casi di disagio psichiatrico, in adulti e adolescenti», continua Mignacca. «Sempre più persone vivono sotto un regime di cura farmacologica permanente. Il fatto è che i farmaci spesso silenziano i sintomi, ma quando non si lavora sulla radice del problema il rischio di un’esplosione rimane, anzi spesso si amplifica: con tutte le conseguenze del caso. Occorre fare attenzione alle red flag dei disturbi della personalità, delle diagnosi di schizofrenia o di disturbo bipolare. I segnali di allarme vanno colti presto, in famiglia, a scuola».

Il boom degli psicofarmaci

Nell’ultimo rapporto Osmed, pubblicato dall’Agenzia italiana del farmaco proprio pochi giorni addietro, viene certificata la crescita delle prescrizioni di psicofarmaci, con un utilizzo che in alcune fasce d’età è raddoppiato dal 2016 a oggi. Le benzodiazepine sono la categoria farmaceutica di fascia C per la quale in Italia si spende di più: 371 milioni di euro nel solo 2024.

Paura, pregiudizi e realtà

Viviamo davvero in un «mondo di pazzi», come spesso diciamo? «È importante non fare di tutta l’erba un fascio, e non cadere nel pregiudizio verso tutti i malati», avverte Paolo Brambilla, ordinario di psichiatria all’università statale di Milano e direttore del dipartimento di neuroscienze e salute mentale dell’Irccs Cà Granda Policlinico di Milano. «C’è stato un atto di violenza, ma amplificarlo rischia di farci cadere nella trappola di pensare che chi ha un disturbo psichiatrico debba sempre e comunque venire “rinchiuso”. Il mondo della salute mentale è affetto dalla violenza così come lo è tutta la società occidentale. Bisogna andare a vedere, caso per caso, quanto sia presente la capacità di intendere e di volere, e come decidere i percorsi diversi dal carcere nelle apposite strutture».

Il problema delle Rems

Che sicuramente dovrebbero essere di più, e più efficienti: in Italia, le Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza adibite all’accoglienza dei soggetti infermi di mente che abbiano compiuto reati sono circa una trentina. I posti disponibili sono 688, il 25 per cento degli occupanti sono stranieri. Chi non trova posto in queste strutture, individui che non possono stare in carcere perché sono stati ritenuti malati, ma nemmeno tornare in libertà perché pericolosi, finiscono in comunità sanitarie di vario tipo o nei reparti psichiatrici degli ospedali, per periodi di tempo anche lunghissimi.

«Le Rems funzionano poco e male», conclude Mignacca. «Sono una specie di tritacarne dove convivono decine di individui con le patologie più diverse, e i percorsi di reinserimento sono complicati. Spesso si reggono solo sulla competenza e abnegazione dei professionisti che vi lavorano: senza di loro avremmo un “caso Lanni” al giorno, e invece il sistema riesce comunque a reggere. È ovvio che poi invece, quando fallisce perché qualcosa sfugge alle maglie della sanità e della giustizia, succede il dramma».

Psichiatria, libertà e paura collettiva

La psichiatria, dunque, fatica ancora a trovare un equilibrio tra responsabilità e libertà, tra tutela e autodeterminazione. In mezzo ci siamo noi, che in nome della “recuperabilità sociale” di chiunque abbia un vizio di mente, ci troviamo a rischiare la vita mentre andiamo al lavoro o al ristorante.
E a cedere alla paura. «Episodi come quello di Milano generano quello che chiamiamo choc collettivo», dice a Panorama Giuseppe Pantaleo, ordinario di psicologia sociale dell’università Vita-Salute del San Raffaele di Milano. «È una reazione fondata su timori profondi e antichi che si diffondono a livello sociale. Si crea un circolo vizioso, perché la paura alimenta la percezione di insicurezza, e il vissuto di insicurezza a sua volta alimenta la paura: un meccanismo che si auto-rinforza nel quale viene meno la fiducia interpersonale, perché spesso questi aggressori dichiarano di aver voluto colpire a caso, e a quel punto ciascuno di noi, potenzialmente, potrebbe essere la prossima vittima».

Tutti noi, sospesi tra la ragione e l’abisso, vulnerabili e spaventati. Chiusi in casa, per paura di chi è pericoloso e imprevedibile, ma libero.

Autore
Panorama

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