La metafisica, quel ponte misterioso tra l'uomo e il cosmo
- Postato il 2 luglio 2024
- Di Il Foglio
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La metafisica, quel ponte misterioso tra l'uomo e il cosmo
Comincia con l’articolo di Michele Silenzi la serie del Foglio sulla metafisica, un percorso a tappe per affrontare i grandi temi della natura, della Storia, della libertà e dell’arte dal punto di vista filosofico. Lo firmeranno alcuni fra i più brillanti pensatori italiani.
Metafisica. Questo il concetto, molto scivoloso, al centro di alcuni articoli che terranno compagnia ai lettori del Foglio durante l’estate. Concetto scivoloso eppure fondamentale per la storia del pensiero e quindi per la storia dell’uomo. Non è intenzione di chi scrive ricordare i modi in cui il termine metafisica è stato declinato nel corso dei secoli. L’idea è piuttosto capire come questo termine, che spesso fa tutt’uno con quello che si considera un pensiero “dell’oltre”, delle cose eterne che stanno in un Altrove, sia in realtà ciò che ci riguarda più da vicino. Ciò in cui siamo immersi come esseri viventi autocoscienti fin dal principio della nostra esperienza esistenziale.
La metafisica, come disciplina, non va pertanto identificata con la branca della filosofia che si occupa di un qualche “iperuranio”. Nella prospettiva che interessa questo dibattito, essa è la filosofia che interroga in maniera radicale il mondo, il suo “essere”. Questo modo di interrogare apre lo spazio dello “spirituale”, dello Spirito di un’epoca, ossia della forza invisibile, eppure concretissima, che dà forma a una determinata epoca. Alla base di ogni epoca vi è infatti una metafisica di qualche tipo. Anche la negazione della metafisica è metafisica poiché a una domanda “spirituale” non si può mai rispondere in termini meramente pratici. È sempre necessario uno sforzo dell’intuizione, dell’immaginazione e della logica per tentare di capire su “cosa poggia” una determinata epoca, quale sia, e se vi sia, un “fondamento” (per quanto transitorio) sul quale costruire, o a partire dal quale, invece, demolire.
Per scendere nell’attualità, si può dire che i dibattiti sulla decadenza o sul tramonto dell’Occidente hanno mostrato genericità e sostanziale superficialità riducendosi spesso a sociologismi di poco conto. È inutile continuare a discutere di decadenza senza parlare della metafisica che è alla base della nostra cultura o della metafisica possibile attraverso cui dare nuova linfa al sistema che chiamiamo Occidente (ma che ormai, nella globalizzazione dell’esperienza esistenziale, è più corretto chiamare Mondo).
La questione della metafisica è per sua natura “inattuale”. Si interroga infatti su un problema che non è legato alla contingenza del momento, ma ne rappresenta il tessuto più reale e concreto, la sua mutevole “sostanza”. Ogni epoca è la metafisica che genera e da cui è generata. Quale è la nostra metafisica? Quale potrebbe/dovrebbe essere quella che ci aspetta? Che tipo di mondo produce la metafisica che vorremmo? In che modo guardiamo il mondo e in che modo lo interroghiamo? Quale risposta riceviamo dal mondo e come veniamo formati da questa risposta?
Nessun progetto di “riforma” o di “cambiamento” in un’epoca assoluta come la nostra può prescindere da una “rifondazione metafisica” ossia dalla necessità di dare significato teoretico all’agire (cioè capire perché e in vista di cosa si agisce). Epoca assoluta, dicevo, per quanto riguarda la questione della metafisica, in quanto per la prima volta l’esperienza esistenziale degli uomini è attraversata dalla certezza, più o meno consapevole, che un Dio che ha creato il mondo, che detta un codice di comportamento confacente alla creazione e che ci aspetta al termine della vita è un pensiero senza reale significato. Epoca assoluta, inoltre, poiché i surrogati ideologici e/o utopistici che, nel corso del Novecento, hanno tentato di imporsi come sostituti intramondani del Dio perduto sono tragicamente falliti. Epoca assoluta, infine, in quanto il benessere raggiunto da un numero senza precedenti di persone in tutto il mondo ci fa sentire “materialmente” salvati. Eppure, proprio in questo momento, sembra non esserci frase più vera di quella che Goethe mette in bocca a Faust, il quale, contemplando la grandezza dell’opera compiuta in tutta una vita, invece di sentirsi appagato e trionfante, dice: “Nell’abbondanza sentire cos’è che ci manca, questo è il tormento più amaro”. Quindi, ora, dove si va? Quale traguardo? Verso cosa muovere? Cosa desiderare?
“Ciò che ci manca” è precisamente ciò su cui riflette la metafisica. Ciò che ci manca è l’ineffabile concreto che riguarda tutti, ora e da sempre, che ci fa mettere all’opera, ci spinge ad andare, a ricercare, a creare, ogni volta in maniera diversa, uno degli infiniti volti della Verità. La metafisica indaga infatti il volto della Verità di ciascuna epoca, cerca di capire il rapporto che si crea in ogni epoca con una Verità che si manifesta di volta in volta in modalità differenti. La Verità che cerchiamo è ciò che ci manca. Che poi questa Verità, che si mostra ogni volta in modo diverso, sia “data” una volta per sempre, oppure che sia invece un “processo” sempre in corso, una creazione inesauribile cui l’uomo contribuisce in modo determinante, è anch’esso un problema centrale della metafisica.
Una delle proposizioni più celebri della storia del pensiero è stata enunciata da Kant: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e reverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e più a lungo il pensiero vi si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”. Questa frase, al di là della sua evidente perfezione e raffinatezza, emana una straordinaria luce filosofica.
Il cielo stellato e la legge morale, nella loro algida bellezza, sono i punti necessari ed estremi con cui è in relazione l’uomo: la totalità delle cose (il cosmo) e l’autocoscienza (la presenza a se stessi). L’uomo si dibatte tra questi due estremi in cui è immerso. Ciò che c’è in mezzo, ciò che scaturisce dalla loro inevitabile relazione conflittuale, dallo sforzo dell’uomo di fare del cosmo la propria casa, è sostanzialmente la Storia, che possiamo chiamare la “produzione totale” dell’uomo. La Storia, ossia tutto quello che c’è tra l’autocoscienza e la totalità delle cose, non è altro che la scaturigine della tensione tra questi due assoluti che devono necessariamente entrare in relazione. Dal loro confronto/scontro e dal tentativo di conciliazione tra di essi scaturisce la Storia, che è il darsi di questo tentativo inesauribile.
La “mancanza” di conciliazione tra autocoscienza e cosmo, tra soggetto e oggetto, tra uomo e natura, è ciò che costituisce il nostro mondo, il nostro essere nel mondo. In tal senso, la Storia non è altro che il tentativo dell’uomo di andare oltre se stesso, di “conquistare il mondo”, di acquisirlo a sé, di darsene ragione. Se, nella figura di Dio, la legge morale e il cosmo sono uniti una volta per sempre nella totalità del divino, nel momento in cui svanisce la possibilità di Dio non svanisce nell’uomo il bisogno di trascendersi, di andare oltre se stesso per cercare ciò che ci manca. Non c’è però un altrove in cui effettuare una tale ricerca o in cui stabilirsi per “compensare” quella che Sartre chiamava “mancanza d’essere”. Occorre farlo qui e ora. Il trascendersi, infatti, è ciò che è più costitutivo dell’uomo.
I rischi di questa epoca assoluta penso siano evidenti. Il desiderio d’essere che compensi nell’uomo ciò che ci manca, nel momento in cui viene a mancare Dio, si trasforma nel tentativo di “farsi Dio”, ossia di divenire unici creatori e giudici di se stessi. Ciò è l’opposto della kenosis cristiana, dello svuotarsi di Dio che si fa uomo. “Quasi due millenni e non un solo nuovo Dio”, osserva Nietzsche. Allora non sarà forse il caso di pensare che l’unico Dio possibile, perché da Dio non si prescinde, sia un Dio da “fare” prodotto dall’azione umana? La pretesa dell’uomo di farsi Dio diviene quasi “naturale” perché solo in quella totalità che fino a ieri chiamavamo “Dio” l’uomo poteva avvertirsi come ricomposto, come non più mancante. Questo desiderio d’essere che ci spinge a voler essere Dio, e quindi a superarci come uomini (come “mancanti”), implica una pulsione all’autocancellazione che ha sicuramente una componente straordinariamente nichilista (e parimenti totalitaria), ma ha anche i potenti e grandiosi tratti di una distruzione creatrice impregnata di libertà.
Non spaventi questa insistenza sulla distruzione. La vita si conserva e si trasforma annientandosi di continuo. La componente “negativa” dell’esistenza è alla base della necessità dell’uomo di agire, di mettersi in moto per cercare ciò che manca, di mettersi all’opera nel modo che ritiene più appropriato. Questa “negatività” costituisce pertanto l’essenza della libertà inevitabile e necessaria dell’uomo, e anche il suo aspetto esaltante e tragico. Esaltante perché si tratta di un’avventura sconfinata. Tragico perché è un percorso strutturalmente incompleto, fatto di fratture, di disallineamenti tra speranza e realtà. Tragico, inoltre, perché il propellente di questa spinta è un’esistenza finita segnata dalla coscienza della morte. Ma questo percorso di libertà non può che essere, sempre e comunque, individuale e antitotalitario perché può emergere solo dalla libera interazione di individui liberi. Nessun, in alcun modo, può calarlo o imporlo dall’alto, o tantomeno prevederlo.
Nel coro dell’Antigone, Sofocle scrive che il fatto che il mondo esista è stupefacente, nulla però è più stupefacente dell’uomo. Egli interviene sul mondo, di cui è parte, lo attraversa, lo scava con i suoi aratri, lo modifica con il suo ingegno, non lascia permanere nessuna cosa nella sua quiete naturale. L’uomo viene pertanto designato come “deinoteron”: “il più stupefacente”, “il più straordinario”. Con una forzatura interpretativa di notevole interesse, Heidegger traduce questo termine con “il più inquietante”. L’uomo è quell’ente che non sta nella quiete della totalità naturale, ma che sottopone continuamente la natura, ciò che è dato, a sollecitazione. Fa violenza a ciò che è dato per trarre fuori “dall’idiotica materia” qualcosa che sia a sua immagine e somiglianza (non è questo che fa Dio?). In altri termini, l’uomo vuole tirare fuori la Verità dal suo nascondimento, ne vuole scolpire il volto. La Verità, ciò che manca, in questa ottica, va fabbricata, va battuta come si fa con il ferro su un’incudine. La ricerca di ciò che manca non è quindi un mero atto contemplativo, ma soprattutto azione, totale messa in opera.
Questa tensione è ciò che spinge a trascendersi, ad andare sempre oltre per cercare ciò che manca. Forse, la spinta a trascendersi non è mai stata così forte come in questo tempo in cui quella forza (da realizzare? irrealizzabile?) che siamo stati abituati a chiamare Dio “si manifesta come un cielo vuoto”, per citare le parole di Remo Bodei su Hölderlin. Il trascendersi, in fin dei conti, è proprio ciò che rende l’uomo “il più inquietante” perché è la costitutiva manifestazione della necessità di uscire da sé, dalla propria stabilità, dalla propria origine, ed è anche ciò che essenzialmente lo caratterizza. Forse solo nell’orizzonte di un cielo vuoto è possibile davvero divenire ciò che si è, e quindi generare, far venire a essere, ciò che ci manca.
Negli interventi che seguiranno questa mia impressionistica “introduzione”, ogni autore traccerà un proprio percorso di pensiero, spesso in contraddizione con quello degli altri. Ciò che unisce questa serie di articoli è l’idea che l’indagine sul mondo non possa esaurirsi in semplici tecniche, pur fondamentali e imprescindibili nella determinazione della nostra epoca. E’ infatti necessario un pensiero capace di far affiorare ciò che in esse, e attraverso esse, prende forma volta per volta. Il nostro, del resto, è il tempo in cui “sappiamo tutto”, perché per la prima volta nella storia dell’umanità siamo anche coscienti di non sapere moltissimo, e soprattutto di essere privi di un fondamento a cui affidarci. E forse è questa la nostra vera sapienza. Da ciò segue che la conoscenza non è un dato attingibile una volta per tutte, ma un farsi, un processo ovvero un’azione. Perciò dovremmo essere più che mai aperti all’indagine, all’inquietudine del trascendimento.
In questa grandiosa avventura siamo, ora, interamente soli con le nostre forze. Una tale prospettiva è entusiasmante e drammatica perché la nebbia non è mai stata così fitta come da questa altura da cui si vede tutto tranne ciò che è per noi più necessario: quell’ineffabile concreto che ci costituisce ma che allo stesso tempo non riusciamo ad afferrare interamente, forse perché non è ancora presente (ciò che ci manca) ma progressivamente da creare.