Dazi e alibi: perché l’export italiano deve guardarsi allo specchio

  • Postato il 16 agosto 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Troppo facile dare la colpa alle barriere commerciali. Per molte PMI il vero ostacolo è la scarsa diversificazione dei mercati e l’incapacità di tradurre il proprio valore in un linguaggio che il mondo digitale possa capire

Quando si parla di commercio internazionale, l’attenzione ultimamente finisce quasi sempre sui dazi, cioè tasse e barriere che rendono più difficile vendere all’estero. Ma per molte piccole e medie imprese questo tema rischia di diventare anche un comodo alibi, un modo per spiegare ogni difficoltà di vendita senza guardare ai limiti strutturali e strategici che frenano davvero la crescita. Il problema, per un Paese come l’Italia, è molto più profondo.

Oggi la nostra economia si regge in larga parte sull’export e ogni anno vendiamo fuori dai confini merci per oltre 700 miliardi di euro. Sembra tanto, e lo è, ma dobbiamo chiederci dove e a chi vendiamo. Il 75% delle nostre esportazioni va verso un pugno di Paesi ricchi, come Germania, Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Spagna, che in totale contano meno di 400 milioni di abitanti. Il resto del mondo, con mercati enormi come Indonesia, Cina, India o Brasile, e miliardi di potenziali clienti, pesa pochissimo per le nostre aziende. Prendiamo un esempio concreto: in Germania ogni anno vendiamo prodotti italiani per oltre 70 miliardi di euro, mentre in Indonesia, con più di 280 milioni di abitanti, vendiamo appena un miliardo e mezzo. Questa concentrazione ci rende vulnerabili, perché se uno di questi mercati storici rallenta o chiude le porte, noi rischiamo grosso.

Per crescere non basta vendere in nuovi Paesi: bisogna capire cosa ci rende speciali e saperlo raccontare in un mondo dove contano soprattutto dati e algoritmi. Il nostro valore nella moda, nel cibo, nell’arredamento o nella meccanica di precisione è fatto di creatività e cura dei dettagli che un’intelligenza artificiale non riesce a cogliere se non glielo spieghiamo in modo chiaro. Oggi chi ha i dati in mano ha anche i mercati, e non si tratta di digitalizzare tanto per farlo, ma di tradurre il nostro talento in un linguaggio che la tecnologia possa capire. Altrimenti è come avere un’opera d’arte senza cartellino: affascinante per chi la conosce, ma invisibile per tutti gli altri.

Negli anni Duemila, le grandi linee ferroviarie ad alta velocità hanno accorciato le distanze tra città e reso più rapido lo scambio di persone e merci. Oggi serve lo stesso salto, ma nel mondo digitale: una rete nazionale capace di raccogliere, organizzare e mettere in circolo le informazioni che raccontano il meglio del nostro saper fare. Se non lo facciamo noi, lo faranno altri Paesi, magari copiando, semplificando o banalizzando il nostro lavoro, e a quel punto resteremo soltanto il “Paese da cartolina”: bello da visitare, ma poco rilevante per chi deve comprare e investire.

Il futuro dell’export italiano non è sopravvivere ai dazi, ma imparare a parlare la lingua del mondo digitale senza perdere la nostra identità. Significa affiancare alla manualità degli artigiani un vocabolario di dati, immagini e storie che ci facciano emergere anche sugli schermi e non solo nelle vetrine. Diversificare i mercati di sbocco, rendere la nostra eccellenza comprensibile anche agli algoritmi e costruire un’infrastruttura nazionale per valorizzare ciò che sappiamo fare sono le vere priorità. Solo così potremo restare competitivi e non sarà un algoritmo a decidere chi siamo.

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Il Fatto Quotidiano

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