Davanti a giovani soldati intrisi di disimpegno morale, si diserti il bellicismo. A partire dalla scuola
- Postato il 31 agosto 2025
- Blog
- Di Il Fatto Quotidiano
- 4 Visualizzazioni
.png)
E’ straziante la notizia del ventenne statunitense che ha sparato e ucciso due bambini, ferendone diversi altri, in una scuola di Minneapolis il 27 agosto, il quale se non si fosse suicidato sarebbe finito in galera per duplice omicidio. Ma è anche straniante se pensiamo che altri ventenni, israeliani, da quasi due anni sparano e uccidono bambini a Gaza come prassi normale di occupazione, al punto che si contano almeno 18mila minori uccisi e altre decine di migliaia di feriti. Ma in questo caso i “responsabili” sono soldati e (salvo le decine che hanno scelto di suicidarsi perché questo compito è diventato insostenibile) avranno riconoscimenti dal proprio governo per la missione compiuta: “un omicidio è delinquenza, un milione è eroismo. Il numero legalizza”, dice Monsieur Verdoux nell’omonimo film di Charlie Chaplin.
Al carcere militare, invece, sono costretti gli obiettori di coscienza e i disertori che rifiutano di partecipare al crimine. Al di là delle efferatezza e dimensioni del genocidio palestinese, il doppio standard etico sulla violenza, quando essa è privata oppure pubblica, spontanea o obbligata, è all’origine della legittimazione di ogni guerra e dei suoi orrori.
Nessuna guerra, per quanto tecnologica, può fare a meno dei soldati. Cioè di giovani formati al disimpegno morale, alleggerendone la coscienza dagli scrupoli secondo i meccanismi studiati da Albert Bandura, per considerare giusta e legittima l’esecuzione di una violenza comandata che invece, senza divisa e senza comando, sarebbe solo gesto criminale. E’ questo l’elemento essenziale della formazione militarista: il processo di etificazione della violenza nelle menti di chi deve eseguirla, attraverso la retorica della guerra.
“Si mettano le maiuscole a parole vuote di significato – scriveva Simone Weil alla vigilia della seconda guerra mondiale – e, per poco che le circostanze spingano in questa direzione gli uomini verseranno fiumi di sangue, accumuleranno rovine su rovine, ripetendo queste parole” (Non ricominciamo la guerra di Troia, 1937).
Oggi che la guerra è tornata ad essere non la continuazione della politica con altri mezzi ma la sua sostituzione, è necessario rieducare le giovani generazioni alla “mentalità di guerra”, secondo le direttive del segretario della Nato Mark Rutte. Accade negli Usa, dove l’esercito ha assoldato influencer per convincere la generazione Z ad arruolarsi attraverso canali social che mostrano quanto è figo fare il militare. Accade in Polonia, dove nelle scuole dai 14 anni è obbligatorio introdurre “l’educazione alla sicurezza” che significa esercitazioni di difesa, addestramento al tiro e disciplina militare, senza badare all’impatto psicologico e sociale della preparazione bellica nell’età evolutiva.
Ancora più precoce la scelta del governo lituano, per il quale i bambini di terza e quarta elementare impareranno a costruire e pilotare droni semplici, mentre man mano che crescono gli studenti delle scuole secondarie produrranno componenti per droni militari, imparando a pilotarli e ad uccidere a distanza.
La Germania, che aveva abbandonato il servizio militare obbligatorio, punta ad una sua progressiva reintroduzione con l’obiettivo di attirare circa 100mila giovani reclute entro il 2030, rendendolo obbligatorio con un semplice emendamento alla legge in discussione al Bundestag se non si raggiungesse un numero sufficiente di volontari: l’obiettivo è costituire il più grande e minaccioso esercito dell’Europa occidentale, armato con le risorse del RearmEu. E in Italia, dove la leva è sospesa?
Secondo il ministro Crosetto e i vertici militari il nostro paese ha sia un problema di anzianità sia di numeri, per cui bisogna riavvicinare i giovani alle Forze armate, ma non si parla di obbligatorietà che in questo momento non pagherebbe elettoralmente (vedi recente ricerca del Censis sugli italiani e la guerra): è necessario dunque aumentare l’appeal della divisa, compito affidato al “Comitato per lo sviluppo e la valorizzazione della cultura della Difesa” (del quale è istruttivo visionare la composizione).
Da qui il massiccio ingresso dei militari nelle scuole di ogni ordine e grado, con una grave ingerenza educativa, come evidenzia Roberta Covelli: “Portare nella scuola logiche di addestramento significa confondere la cittadinanza con la disciplina, la comunità con la gerarchia, la responsabilità con l’obbedienza” (Fanpage, 22 agosto).
Che fare, dunque, di fronte all’invasione militare dei luoghi della formazione? Due cose, principalmente: contrastarla, usando gli strumenti che mette a disposizione l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, come il documento proposto ai collegi dei docenti per rifiutare la partecipazione degli studenti ad attività militari; superarla, promuovendo ovunque percorsi di educazione alla pace per studenti e studentesse e di formazione alla nonviolenza, dal micro al macro, per insegnanti.
Di fronte alla militarizzazione del pensiero, è tempo di formare intenzionalmente le nuove generazioni alla diserzione dal bellicismo e ai saperi della nonviolenza. Senza doppi standard etici.
L'articolo Davanti a giovani soldati intrisi di disimpegno morale, si diserti il bellicismo. A partire dalla scuola proviene da Il Fatto Quotidiano.