Dall’Europeo alla Champions: come il calcio ha raccontato l’Europa che cambia

  • Postato il 4 novembre 2025
  • Di Il Foglio
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Dall’Europeo alla Champions: come il calcio ha raccontato l’Europa che cambia

Sull’Almanacco Panini, le competizioni internazionali calcistiche sono presentate con un ordine che può apparire curioso, in quanto non coincide con l’effettiva rilevanza: si inizia con le Olimpiadi, si prosegue con i Mondiali, quindi si passa all’Europeo. Si tratta, in realtà, di un tentativo di ordine cronologico. La prima competizione internazionale per Nazionali è stata infatti l’Olimpiade di Parigi, nel 1900, cui presero parte tre Nazionali – nella circostanza, se ci si accontentava della medaglia di bronzo, l’importante era davvero partecipare.

Curiosamente, vinse una nazionale che non esisteva, la Gran Bretagna: nel senso che dal Regno Unito era stata inviata una squadra di club, l’Upton Park, poi sciolta nel 1911 e rifondata di recente, al solo scopo di giocare partite amichevoli e di beneficenza. Va detto che, come nazionale, la Gran Bretagna non sarebbe esistita nemmeno se avesse schierato una selezione dei migliori giocatori delle quattro compagini che dal 1884 si disputavano il Torneo interbritannico, cioè (in ordine di numero di vittorie) Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord. Trattandosi di una Home Championship, questo torneo viveva nell’ambiguità di essere al contempo internazionale – cos’hanno in comune un irlandese e un inglese? – e nazionale, poiché i quattro territori avevano un unico sovrano, un’unica moneta e un unico esercito. Erano quattro nazionali per uno stesso Stato.

I Mondiali apparvero quando erano già state disputate sette edizioni dell’Olimpiade calcistica, le ultime due dominate dall’Uruguay, che nel 1930 ne approfittò per organizzare e vincere anche il primo Campionato del Mondo. Dopo la Seconda guerra mondiale, a partire dal 1946, il trofeo sarebbe stato intitolato a Jules Rimet, francese, presidente della Fifa dal 1921, che visse abbastanza a lungo da vedere svolgere un’edizione del Mondiale a proprio nome, quella del 1950. Vinse di nuovo l’Uruguay, che in seguito perse l’abitudine.

Rimet morì nel 1956; l’anno prima era morto Henri Delaunay. Francese anche lui, Delaunay era stato arbitro e, soprattutto, aveva servito come primo segretario generale dell’Uefa, la federazione calcistica europea nata nel 1954. A Delaunay si devono l’auspicio e l’ideazione di un torneo di calcio per rappresentative nazionali esclusivamente europee: un’imitazione della Coppa America che si teneva oltreoceano – circoscritta al solo Sud America – sin dal 1916 (sì, la prima edizione l’aveva vinta l’ineluttabile Uruguay).

A differenza di Rimet, Delaunay non visse abbastanza a lungo da vedere svolgersi il torneo che gli sarebbe stato intitolato, la Coppa Henri Delaunay, meglio nota come Campionato Europeo delle Nazioni. La prima edizione si tenne nel 1960, e fu vinta anche in questo caso da una nazionale che non esiste: l’Unione Sovietica, che per buona parte del Novecento schierò in campo il meglio delle rappresentative russe, ucraine, baltiche e centro-asiatiche. Per colmo di sventura, sul podio si piazzarono altre due nazionali che non esistevano mezzo secolo prima e che non esistono più: la Jugoslavia e la Cecoslovacchia.

L’Unione Sovietica era stata formalmente fondata nel 1922; la Jugoslavia si era iscritta all’anagrafe nel 1929; la Cecoslovacchia era sorta da brandelli dell’Impero Austro-Ungarico con la pace di Versailles del 1919. Questo torneo inedito nasceva dunque all’insegna di una certa novità. Delle altre quattordici nazioni partecipanti, l’Eire era diventata indipendente nel 1922, l’Ungheria e la Bulgaria nel 1919, la Turchia era ciò che restava dell’Impero ottomano dopo il 1923, l’Austria un trascurabile residuo dell’Impero asburgico dopo la Prima guerra mondiale. La Germania Est risaliva al 1949. Provenivano da secoli precedenti soltanto la Romania, la Francia, la Grecia, il Portogallo, la Spagna, la Polonia e la Danimarca; la Norvegia si era sbarazzata della Svezia nel 1905, in piena belle époque.

L’Europeo non era dunque solo un torneo di calcio: era il tentativo di formalizzare, riordinare e normalizzare il caos che aveva percorso l’Europa nel giro di mezzo secolo, facendo sì che l’opinione pubblica trovasse un po’ di stabilità in quel campionato quadriennale agli albori dell’epoca del benessere, benché nel pieno della Guerra fredda. Non è un caso che nel lungo dopoguerra proliferasse l’indizione di nuovi tornei calcistici continentali, per nazionali o per club: il più precoce fu il Torneo juniores europeo, istituito dalla FIFA nel 1948 per compagini under 19, come a voler dare voce alla speranza dei ragazzi per un continente alfine pacificato. Seguirono l’anno dopo il Torneo di Viareggio, nel 1950 il Torneo internazionale juniores di Cannes, nel 1955 la Coppa dei Campioni e la Coppa delle Fiere, nel 1960 la Coppa delle Coppe, 1967 il Torneo giovanile internazionale di Tolone, nel 1970 l’Europeo under 21, nel 1971 la Coppa Uefa, nel 1972 la Supercoppa Europea, nel 1980 il campionato Europeo under 16.

È significativo notare come questi nuovi tornei sorpassassero e, in alcuni casi, uccidessero le competizioni che in precedenza erano riservate solo a porzioni del continente. La Coppa Latina, che opponeva i campioni di Italia, Francia, Spagna e Portogallo, durò il breve spazio di un respiro, dal 1949 al 1954. La Coppa Internazionale, dal 1927 sede di epiche sfide fra Italia, Austria, Cecoslovacchia e Ungheria, venne soppressa nel 1960. Perfino il Torneo interbritannico spirò nel 1984. In controtendenza ci fu solo il Torneo Anglo-Italiano, ideato da Gigi Peronace allo scopo di opporre le migliori squadre cadette delle due nazioni; segnò una pittoresca novità del 1970 e durò faticosamente solo fino al 1996.

Il caso più clamoroso è la Mitropa Cup, che dal 1927 dava spazio alle migliori squadre dell’ex Impero asburgico o Mitteleuropa. Ebbene, venne interrotta nel 1939, riprese con squadre di rincalzo nel 1955, fino a ridursi a sfida fra squadre di serie B e tramontare nel 1992. Da trentatré anni, dunque, il detentore di questo trofeo passato dalle gloriose bacheche di Sparta Praga, Ferencvaros, Rapid Vienna, Stella Rossa e Bologna (quello “che tremare il mondo fa”) è il Borac Banja Luka, al momento in testa al poco appassionante campionato bosniaco.

Sarebbe temerario asserire che per l’Europa Henri Delaunay sia stato importante quanto Robert Schuman, però sarebbe altrettanto ottuso ignorare la sostanziale consonanza delle date. La dichiarazione Schuman è del 1950, la costituzione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio del 1951, il Trattato di Roma che diede vita alla Comunità Economica Europea è del 1961. Inconsapevolmente, l’Unione Sovietica – dal 1955 capofila del Patto di Varsavia –stava contribuendo, attraverso il calcio, alla creazione di un’identità europea condivisa, nel modo in cui era più gradevole incontrarsi e scontrarsi: inseguendo una palla che rotola.

Non è un mistero che quell’Europeo fu percorso da tensioni di natura politica, protagonista la stessa Unione Sovietica. Nei quarti di finale, passò il turno con due 3-0 a tavolino in quanto la Spagna, su impulso di Francisco Franco, si rifiutò di confrontarsi con una rappresentativa bolscevica. Il problema non si pose nei turni successivi poiché tutte le altre avversarie dell’Urss, forse grazie anche a sorteggi benevoli, appartenevano al misterioso e cupo mondo oltrecortina. Quattro anni dopo, tuttavia, Spagna e Urss si ritrovano in finale a Madrid e, benché fossero ancora rispettivamente governate da Franco e Chruscev, disputarono regolarmente la partita, come se niente fosse. Qualcosa era cambiato.

Si può infatti anche leggere, nell’evoluzione dell’Europeo, uno specchio dell’evoluzione dell’Europa come comunità di nazioni. L’UEFA è sempre stata più popolosa dell’Unione Europea, però all’allargamento dell’una sembra sempre corrispondere un allargamento dell’altra. Alla sua fondazione, nel 1951, la CECA contava sei membri: Italia, Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo; la fase finale del primo Europeo, nel 1960, vide la partecipazione di quattro squadre: le tre sul podio più la Francia. L’Europeo venne ampliato a otto squadre nel 1980, in occasione di una noiosissima edizione disputata in Italia; la CEE fu ampliata a partire dal 1973 e tenne le prime elezioni legislative continentali nel 1979. L’età dell’oro degli Europei, le edizioni forse più spettacolari – quelle di Platini, di Van Basten e della sconvolgente Danimarca – furono quelle dal 1984 al 1992: furono gli anni in cui venne sancito l’accordo di Schengen (1985), istituita la bandiera europea (1986), firmato il Trattato di Maastricht (1992). Ora l’Unione Europea conta ventisette Stati membri, forse troppi; la fase finale dell’Europeo di calcio è aperta a ventiquattro squadre, decisamente troppe, ben sette in più di quante parteciparono alle eliminatorie nel 1960.

Non si può individuare un principio di causa-effetto nel rapporto fra Uefa e Ue, in rigoroso ordine cronologico di fondazione. Fatto sta che, tuttavia, i tornei di calcio sono al contempo causa ed effetto del contesto sociale in cui sono calati: ne recepiscono le istanze e ne determinano l’immaginario. A questa luce va letta la proliferazione di nuovi tornei, o l’ipertrofia di quelli vecchi, che si sta verificando sotto i nostri occhi, mentre si delinea un agone geopolitico reso sempre più complesso dalla polarizzazione dei conflitti e dall’accelerazione delle comunicazioni, vertiginosa in entrambi i casi.

In Europa, i sintomi più evidenti sono tre. Anzitutto, la nascita della Nations League, nel 2018: le nazionali, pur restando sullo stesso piano nell’Europeo, qui vengono suddivise in quattro serie di diversa importanza, con un sistema di promozioni e retrocessioni che puzza un po’ di rating alla Standard & Poor’s. Quindi, l’evoluzione della Coppa Uefa in Europa League (nel 2009) e la nascita per gemmazione dell’inquietante Conference League (nel 2021). In entrambe le competizioni vengono sottorappresentate le federazioni che riuniscono i grandi club, creando una sorta di proletariato continentale delle società di calcio, o sottoproletariato, per quel che riguarda la Conference League: mi rincresce notificare che il Borac Banja Luka quest’anno è stato eliminato nel turno preliminare da una squadra di Andorra, il Santa Coloma, che stenterei a definire compiutamente professionistica.

Il terzo e più clamoroso sintomo è la nuova formula della Champions League, ormai lontanissima parente della competizione che, dal 1955 al 1997, consentiva la partecipazione solo di una squadra per ciascuna nazione, magari col rischio che venisse sbattuta fuori al primo turno a eliminazione diretta. Ora non solo le federazioni più forti e ricche possono presentare più club, come accade da quasi tre decenni, ma i primi mesi di competizione vengono caratterizzati da una fase a girone unico, in cui le trentasei partecipanti vengono messe in fila in una lunghissima classifica. È un tentativo di andare verso un campionato europeo per club, come nell’ambizione fallita della sedicente Superlega, un torneo privato di cui era corsa voce nel 2021, o nella concreta realizzazione dell’Eurolega di basket, un torneo fra le principali città europee (più Dubai) che ha meritato notevole successo commerciale e di pubblico.

I tornei sportivi cambiano perché cambia la società che devono intrattenere; perciò sono spesso l’avvisaglia di evoluzioni politiche. L’Europeo del 1960 parlava di un’Europa delle nazioni assetata di pace e di stabilità e curiosa di scoprire cosa ci fosse nel misterioso est; c’erano ottimi calciatori e squadre fortissime, si scoprì rapidamente. Era l’epoca della comunità. Le nuove competizioni continentali odierne ci parlano di un’Europa in cui le nazionali si sforzano di comportarsi come club – è il caso della Nations League –, i confini si sfaldano e si fondono come i gironi della Champions League, le società vengono vagliate secondo graduatorie di massima accuratezza. È l’epoca dell’interesse privato.

A questa luce va letta la nascita dell’ultimo torneo partorito dalla fantasia di un uomo di calcio, il Mondiale per Club escogitato dalla FIFA e tenutosi quest’estate negli USA. Si tratta di una competizione per società, in quanto l’appartenenza degli spettatori è determinata meno dalla ristretta nazionalità (Italia, Urss, Gran Bretagna…) che dal marchio di scala globale (Juventus, Real Madrid, Inter Miami); è una competizione mondiale in quanto, nell’epoca della comunicazione istantanea e dei viaggi economici da un capo all’altro della Terra, l’idea stessa di continente sembra traballare, a fronte di interessi condivisi fra nazioni geograficamente distanti. Come l’Europeo del 1960 era il segno di un’Europa che voleva affacciarsi unita sulla scena internazionale, il Mondiale per club del 2025 testimonia un’Europa che si ritrova a contare molto ma molto meno del previsto. Sul palco della premiazione, il trofeo è stato consegnato da Donald Trump.

   

   

Testo del discorso in occasione di “L’Europeo che non esiste più”, evento organizzato da Comune di Modena, Mo’ Better Football, Europe Direct e Istituto Storico di Modena, il 4 novembre 2025.

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Il Foglio

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