Dal mare di Gonnesa al monte di Pau: viaggio nella Sardegna nascosta tra tonnare antiche, miniere inglesi e siti nuragici
- Postato il 3 luglio 2025
- Viaggi
- Di Il Fatto Quotidiano
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Acque cristalline e calette paradisiache: la costa della Sardegna è tra le più incontaminate al Mondo e l’identità dei sardi è fortemente legata al mare. Ma quest’isola ha anche una lunga storia da raccontare. Anzi, una preistoria perché quella della Sardinia, come la chiamavano i latini, risale a 500mila anni fa. Risalendo dal mare all’entroterra arso dal sole, ecco le sue due anime che convivono in questa terra antichissima ancora da scoprire.
Gonnesa: sulla rotta dei tonni
Il nostro viaggio nella cultura sarda parte dalla provincia più giovane, quella di Sulcis-Iglesias che però giovane lo è solo nella forma perché racchiude strati millenari di civiltà che sovrapponendosi sopravvivono ancora nel popolo sardo. Tutto ciò che è rimasto per loro è motivo di orgoglio, di recupero: questa è la parola che più frequentemente si può ascoltare, parlandoci. Si parte dall’inglesiente, dalla città di Gonnesa. Siamo nel golfo del Leone, a Porto Paglia dove l’acqua è trasparente e la sabbia è morbida e dorata. Ci si arriva discendendo i colli di dune fossili che, abbracciate dalla macchia mediterranea, si aprono sul mare. Anche loro stanno lì da tempo immemore e dal ‘700 accolgono l’antica tonnara di Porto Paglia che condivide l’orizzonte con ciò che resta della linea di antichi fortini con cui i sardi difendevano il loro il golfo dai barbari pronti a depredarli. A pochi metri dalla spiaggia c’è il villaggio dei tonnarotti ed è, neanche a dirlo, oggi in fase di recupero. Fino agli anni ’70 in queste casupole dello stesso colore della sabbia ci vivevano i pescatori, mentre oggi sono alloggi-vacanza per turisti e star di cui però gli autoctoni non fanno nome per proteggere ciò che li ha portati qui: la quiete. Ci spiega Loredana, la guida del posto, che già nel 1.500 il commercio e l’economia qui erano fondate sul tonno.
Del resto, la rotta dei tonni è sempre la stessa da secoli: arrivano da sud ovest da sempre e hanno invertito il percorso solo quando nel 1860 per dieci anni l’esplosione dell’attività mineraria ha intossicato le acque. Fino a quando la tonnara non è stata dismessa, i tonni venivano catturati in un sistema di reti in mare. Non potendo più procedere finivano nelle camere della morte, girando in tondo sotto lo sguardo supremo del Rais che dava disposizioni ai suoi tonnarotti. Il dominus della tonnara era responsabile della pesca ma anche del commercio dei tonni. In tempi meno recenti entrava nella camera della morte con una barchetta col fondo di vetro da cui vedeva quanti pesci erano entrati. Da lì, partiva il segnale del Rais a tutta la ciurma per arpionarli. Per quanto visibilmente cruenta e per questo messa al bando (in Italia abbiamo solo tre tonnare) la mattanza era tutto sommato una pesca rispettosa ed ecosostenibile: tutti i pesci che per qualche motivo erano di troppo, tonni compresi, venivano liberati ancora vivi. Dalla sua casa a due piani il Rais vedeva oltre il promontorio e le due sporgenze dove nel periodo della mattanza metteva la Madonna di Trapani per buon augurio e una grande lampara per i pescatori che rientravano di notte, così che potessero vedere la costa dal largo quando le luci elettriche erano ancora inesistenti. L’antico fortino, o ciò che ne resta un tempo è stato un deposito di esplosivo ed è dedicato a Santa Barbara, martire protettrice dei minatori, in particolare di quelli che maneggiano l’esplosivo. Suo padre, si narra, per impedirle di convertirsi al cattolicesimo la rinchiuse in una torre e quando ne uscì, già morta, lui fu colpito fatalmente da uno strale. A lei è dedicato anche il Cammino di Santa Barbara che attraversando tutta la provincia fa cinque tappe in costa. Spesso qui ci soffia il maestrale e ci resta anche per sette giorni: “Ma ormai fa parte di noi”, ci dice sempre Loredana “e sferza per così tanti giorni che anche la vegetazione è adattata si è piegata. Anche questa è resilienza, permettere al vento di passare indisturbato”. Quella del tonnarotto non era insomma una vita comoda ma “era l’unica opportunità che avevamo per poter crescere le famiglie in passato”, ci dice la gente del posto. Poi, negli anni ’70 con l’avvento delle miniere le attività si sono spostate con minatori che arrivavano da tutta Italia a Gonnesa e a Carbonia, giovane città di fondazione fascista costruita dal regime di Mussolini a bocca di miniera, sul bacino carbonifero. Certo, nelle miniere la vita era ancora più dura ma prima di allora se alla gente andava male il raccolto, non c’era modo di sopravvivere alla fame. Quel lavoro, subentrato a un’economia fondata sul lavoro nei campi e sulla pesca, garantiva quello status sociale costante che consentiva di poter avere una famiglia. La società dava anche le case ai suoi dipendenti. Quelli ancora in vita non ne non ne parlano volentieri, non conservano forse dei bei ricordi. Basti pensare che le donne, che avevano il ruolo di cernitrici, avevano una mano più grossa dell’altra a furia di spaccare masse di cinque chili di minerali, ci raccontano oggi le loro nipoti.
La Sardegna nuragica
Camminando lungo la Strada Statale numero 130, si arriva in uno dei primi segni tangibili dell’antichissima civiltà sarda: il complesso nuragico di Seruci. Una comunità che nonostante risalga all’età del Bronzo era complessa e ben strutturata come testimonia questo sito archeologico che si estende su sei ettari di terreno da cui si può ammirare il sole che si spegne nel mare. Il nuraghe Seruci è una scoperta recente: prima dei primi scavi all’inizio del Novecento era un monte completamente ricoperto di terra. E mentre camminiamo tra queste rovine millenarie scopriamo che c’è u versante ancora tutto da scavare. Eretto tutto in pietre vulcaniche – diverse tra loro a seconda dell’era di edificazione – la parte più grande del complesso nuragico serviva a controllare l’orizzonte fino al mare: sulla parte alta c’era il guerriero di turno. Era un villaggio ampiamente abitato e al suo interno sono stati ritrovati a oggi un pugnale, un lingotto e delle panelle di bronzo forse utilizzate come monete di scambio. Durante le due guerre mondiali, quella che era la capanna delle riunioni in cui si prendevano le decisioni, è stata utilizzata come fortino. Nella piazza con la corte centrale si possono ancora distinguere più ambienti, anche una sorta di luogo di purificazione con la vasca in pietra e il focolare dove le pietre venivano riscaldate. Un po’ più in alto, proprio come nelle necropoli greche, i nuragici seppellivano i defunti nelle “tombe dei giganti”, luoghi di sepoltura di massa. Il viaggio all’interno dell’antica città nuragica si conclude a pochi passi dal pozzo, un nuraghe in pietra ma scavato verso il basso in cui sono state ritrovate delle brocchette per il vino lavorate nell’età del ferro. Venivano buttate giù come ex voto.
Nel cuore della miniera
E incrocia il cammino di Santa Barbara il villaggio Normann, un anello minerario a bocca di miniera costruito alla fine del 19esimo secolo da una società inglese che ricevette la concessione per l’estrazione dei minerali. Venivano trasportati da piccoli vagoni, dal costone della montagna, su binari a scartamento ridotti larghi meno di un metro. Tutto era costruito adattandosi alla natura. Fu un ingegnere belga a inventare questo sistema ferroviario di linea ferrata che si spostava di galleria in galleria. Era un villaggio attrezzato, con il cinema e i campi da tennis ma tutto questo era solo per i tecnici e il direttore, le attività di svago erano a uso esclusivo loro. Per i minatori, perlopiù gente del posto, tutti questi spazi erano inaccessibili. Era un villaggio fortemente segnato dalla differenziazione sociale. Basti pensare che sullo scuolabus, i figli dei minatori dovevano cedere il posto ai figli dei tecnici, la chiesa era l’unica terra di mezzo in cui potevano giocare insieme. C’era anche lo spaccio, costruito dalla società concessionaria che stabiliva i prezzi in maniera arbitraria. Così, accadeva che spesso i minatori si indebitavano ma vale quanto già detto per i tonnarotti: almeno potevano crescere una famiglia. Le case del villaggio sono tutte in stile inglese e belga come lo erano anche i tecnici, insieme a qualche piemontese. Il popolo sardo, fino ad allora dedito solo ad attività di sussistenza come pesca e agricoltura, era la forza lavoro in miniera. Poi con la nascita della prima scuola mineraria di Iglesias anche i sardi hanno potuto studiare per evolversi, anche economicamente.
Oggi, Normann, curato dall’associazione omonima guidata da Pierluigi Carta, non è affatto quella che si dice una ghost town ma ci abitano 45 persone che l’hanno proprio scelto, nonostante sia privo di connessione ad Internet, o forse proprio per questo. Dove c’era una discarica a cielo aperto oggi c’è un belvedere che si affaccia sullo sconfinato paesaggio; l’ex dimora del direttore della miniera, “Villa Stefani” in estate accoglie eventi e concerti. I sentieri che attraversano l’ex centro minerario sono stati ripuliti e oggi formano i “Sentieri della memoria”. E sul belvedere il segno della memoria più significativo rende onore non alla presenza umana passata ma al sacrificio degli animali. Scolpito in legno con in testa il suo elmetto c’è il cavallo bosano, uno dei tanti che venivano calati in galleria dove restavano seduti per mesi al buio, tanto che furono creati dei paraocchi per proteggerli all’uscita ed evitare si accecassero. Guidati dai minatori, i cavalli trainavano i minerali sulle linee ferrate dal cuore della montagna ma tale Bosano aveva una particolarità: trascinava sempre e solo sette vagoni e se i manovali ne aggiungevano altri, non si schiodava da terra. Era riuscito ad automatizzare il numero dei suoni del collegamento tra i vagoni e all’ottavo si fermava: un cavallo rivoluzionario che seppure inconsapevolmente ha lottato contro lo sfruttamento della manovalanza.
L’ossidiana
Da Gonnesa ci spostiamo a Pau, piccolo e silente borgo di 274 anime che sorge sul Monte Arci, circondato da boschi. Al centro di Pau c’è l’unico museo in Europa dedicato all’ossidiana, una nera pietra simile a un cristallo generata dall’attività vulcanica del Monte Ermice. Il vetro vulcanico è stato sfruttato sin dall’era preistorica per produrre utensili e strumenti impiegati nella quotidianità, ce lo raccontano i ritrovamenti fatti nei villaggi nuragici vicini tra cui il Nuraghe Seruci. L’ossidiana veniva lavorata e scheggiata in un’officina a cielo aperto, il bosco di Su Furru de is Sinzurreddus. Per arrivare nella parte alta, dove affiora l’ossidiana, si cammina lungo un sentiero cosparso di scarti di lavorazione. Sembra di calpestare scarti di bottiglie di vetro nere: non a caso è chiamato il sentiero corvino. Qui, si lavorava l’ossidiana già 6500 anni fa, nel neolitico medio e l’attività di lavorazione è andata avanti almeno fino all’età nuragica. Solo con l’età del bronzo e la relativa scoperta dei metalli, l’interesse per l’ossidiana si è lentamente assopito. Si tratta di un sito archeologico che cambia ogni giorno, ci spiega Giovanna, l’archeologa del posto che ci guida lungo il sentiero nel bosco. Perché di norma non si cammina sui reperti e quindi questo è quindi un reperto alterato. Ci dicono che l’ossidiana non era una pietra di grande valore e per dare prestigio al manufatto si puntava sulla forma e sulla lavorazione con ritocchi finissimi. Ma l’ossidiana non era solo una pietra di uso comune, aveva anche un valore simbolico. Il suo colore nero e la sua lucentezza evocavano l’idea della vita e della morte nella cultura del popolo sardo, oggi come allora attraversato da una profonda spiritualità che entra da sempre nelle sue storie e leggende. Il tour nella Sardegna antica è stato organizzato dalla società Orientare con i comuni di Pau, Gonnesa e con la Fondazione di Sardegna.
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