Da Coca Cola e Nestlé, da Barilla a Ferrero: i grandi gruppi sono rimasti in Russia. E con le loro tasse finanziano un terzo delle spese militari di Mosca

  • Postato il 19 febbraio 2025
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Centinaia di migliaia di morti, palate di miliardi buttati in armi, sanzioni, proclami, accostamenti al terzo Reich nazista. Eppure le imprese occidentali, statunitensi ed europee, in Russia non hanno mai smesso del tutto di fare affari. Non c’è solo il gas russo, che ha smesso di arrivare in Europa attraverso i gasdotti per prendere la via del mare ed esserci recapitato in forma del più costoso gas liquefatto. Ci sono anche 2.245 aziende occidentali, di cui un terzo sono multinazionali, che sono sempre rimaste attive in Russia. Lo scorso gennaio le imprese internazionali presenti nei confini russi sono anzi aumentate di 7 unità.

Dall’inizio della guerra, quelle che hanno cessato completamente la loro attività sono state meno di 500, poco più di una su dieci. Altre 1.360 l’hanno soltanto ridotta, la maggioranza non ha cambiato nulla. I dati sono contenuti nell’ultima rilevazione del Kyiv School of Economics Institute (KSE), in cui si sottolinea pure come i profitti realizzati in Russia ammontino a “decine di miliardi di dollari”, rimasti per lo più in Russia.

Mosca distingue infatti tra paesi amici e ostili. Le aziende di Stati Uniti, Regno Unito e Ue rientrano nella seconda categoria e possono quindi rimpatriare solo fino alla metà dei loro profitti. Le aziende di paesi amici, come Cina, India e Turchia, possono teoricamente mandare in patria tutti i loro guadagni, ma in pratica sono spinte a reinvestire i soldi in Russia. La decisione finale sul rimpatrio degli utili viene comunque presa da Mosca che così può esercitare un controllo su capitali in entrata e in uscita e gestire gli impatti sulla valuta nazionale.

Qualche cifra, solo nel 2023, le multinazionali presenti in Russia hanno incassato 197 miliardi di dollari (188 miliardi di euro) con profitti per poco meno di 17 miliardi. Hanno pagato a Mosca tasse per 21,6 miliardi di dollari, che diventano 41,6 miliardi se si considera pure il 2022. Una cifra che equivale a un terzo del bilancio delle spese militari russe previste nel 2025. I soli gruppi europei hanno registrato ricavi, nel 2023, per 81 miliardi, versando imposte per 3 miliardi. Sarebbe forse il caso di ricordarsi queste cifre quando si suggerisce di inviare nuove truppe occidentali sul terreno di guerra, mettendo in conto la morte di migliaia e migliaia di giovani individui.

I maggiori contributori del bilancio russo sono i colossi dei beni di consumo Mars, Nestlé, and Procter & Gamble, che, da sole, hanno versato in un anno 1,5 miliardi di tasse a Mosca. Ci sono poi colossi come Coca-Cola, Pepsi, Philip Morris, Metro, L’Oreal, aziende farmaceutiche come la francese Sanofi, la svizzera Novartis e le inglesi AstraZeneca e GSK, oppure banche come l’austriaca Raiffeisen.

Nutrita la pattuglia italiana, che conta in tutto 142 gruppi. Tra i nomi spiccano quelli di Ferrero, Barilla, De Cecco, Perfetti, Parmalat (proprietà francese), Campari, Recordati, Marcegaglia, Smeg, Mapei, De Longhi, Safilo, Benetton, Boggi, Twinset, Brunello Cucinelli, Geox e Calzedonia.

Sono ancora nel paese ma hanno sospeso gli investimenti Saipem (controllata al 13% dal Tesoro), Pirelli, Enel Green Power (controllato al 24% dal Tesoro), Tenaris, Lavazza e Menarini. Tra chi se n’è andato si annoverano Unicredit, Buzzi Unicem, Luxottica, Prada, Leonardo, Illy, Intesa Sanpaolo, Autogrill, Eni, Enel, Moncler.

Il gruppo dolciario Ferrero fattura in Russia oltre 740 milioni di dollari, Perfetti si ferma a 270 milioni. Barilla mette a bilancio ricavi da 170 milioni. La filiale di Benetton incassa 121 milioni e ha un organico di quasi 500 dipendenti. Per Calzedonia la Russia vale quasi 400 milioni l’anno, e lo staff supera le 2mila persone. Campari ha ricavi per 110 milioni, Geox per 77 milioni. Il gruppo Marcegaglia, che ha acquistato un sito di Severstal, fattura 58 milioni. Mapei ha in Russia 225 addetti che generano ricavi per una trentina di milioni. I 60 dipendenti di Smeg alimentano un fatturato poco inferiore ai 40 milioni.

L’Italia è comunque solo ottava nella classifica delle aziende rimaste in Russia. A svettare sono gli Stati Uniti con 795 imprese, seguiti dalla Germania (495) e della Gran Bretagna (292). Londra si è distinta in questi anni per essere un accanita propugnatrice di azioni militari più imponenti contro Mosca. Chissà cosa avrebbe detto Winston Churchill, tirato spesso in causa in questi tre anni come esempio di chi seppe assumere, seppure in un secondo momento, una posizione intransigente contro Hitler. Vengono poi la Cina (260 aziende),la Francia (185), il Giappone (181), la Svizzera (168). Dopo l’Italia si piazzano l’Olanda (112 imprese) e, al decimo posto, la Finlandia che, nonostante l’adesione alla Nato in funzione anti-Russia, conta ancora 102 società che operano e fatturano in Russia.

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Il Fatto Quotidiano

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