Crotone, introduceva telefoni in carcere: arrestato agente della polizia penitenziaria

  • Postato il 18 dicembre 2025
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Crotone, introduceva telefoni in carcere: arrestato agente della polizia penitenziaria

«Della divisa non me ne frega niente», agente della penitenziaria introduce telefonini nel carcere di Crotone, arrestato grazie a un infiltrato.


CROTONE – «Della divisa non me ne frega niente». Non sapeva di parlare con un agente sotto copertura e si diceva disposto a tutto, Giuseppe Giaquinta, 52enne assistente capo della polizia penitenziaria in servizio al carcere di Crotone. La Squadra Mobile della Questura lo ha arrestato perché, secondo l’accusa, favoriva l’introduzione di telefonini nel penitenziario, in cambio di denaro da parte di detenuti e loro familiari, e svelava segreti. L’attività investigativa svolta tramite intercettazioni e servizi di osservazione e controllo, nonché grazie al prezioso contributo di un undecover del Servizio centrale operativo della polizia di Stato, avrebbe consentito di svelare che l’indagato, sfruttando la sua mansione di addetto ai colloqui, sarebbe riuscito a carpire la fiducia dei detenuti. Così li avrebbe indotti a consegnare denaro, spesso tramite loro familiari, in cambio di presunte agevolazioni e di un interessamento per le loro vicende giudiziarie.

FUNZIONE SVILITA

Le accuse ipotizzate dalla Procura guidata da Domenico Guarascio sono quelle di corruzione, rivelazione di segreti d’ufficio, falso e accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di detenuti. La gip Assunta Palumbo, accogliendo la richiesta della Procura, ha disposto la misura in carcere per Iaquinta. Poiché l’indagato avrebbe «mercificato la propria funzione, degradata e svilita a strumento per delinquere».

LA GENESI

Tutto nasce da un’inchiesta collegata per reati di droga. Emerge che uno degli indagati, parlando con i congiunti durante i colloqui in carcere, avrebbe corrisposto denaro a un assistente capo della polizia penitenziaria per ottenere una serie di favori. In cambio di 3mila euro, per esempio, l’agente gli avrebbe riferito che la sala colloqui era sottoposta a intercettazioni da parte delle forze dell’ordine. Inoltre, Giaquinta, millantando un presunto rapporto con un magistrato di sorveglianza, si sarebbe fatto pagare per una presunta mediazione per la compravendita di provvedimenti di favore da parte del giudice. Nasce così un autonomo procedimento penale, corroborato anche da una relazione dei vertici della Casa circondariale di Crotone che recepiva la segnalazione di un detenuto secondo cui Giaquinta avrebbe agevolato l’introduzione di tre microtelefoni e di uno smartphone.

CONTINUA RICERCA DI DENARO

Mosso da una «continua ricerca di denaro», Giaquinta avrebbe concluso una serie di accordi corruttivi con detenuti offrendo un vasto pacchetto di servizi. Dall’introduzione di telefonini in carcere, con contestuale ricerca di intestatari fittizi di smi card, alla possibilità di effettuare colloqui aggiuntivi. Occhi chiusi anche sul peso dei pacchi consegnati. Rivelazioni sulle intercettazioni in corso. E consegna di messaggi e foto. La gip parla di «insensibilità assoluta» di Giaquinta ai propri doveri d’ufficio, che emergerebbe anche dai colloqui intercettati. «A me della divisa non me ne frega un c….. Lo faccio per soldi». E ancora: «Tu con me devi parlare come se io non avessi la divisa».

AGENTE INFILTRATO

Una importante innovazione, dal punto di vista investigativo, è l’utilizzo di un agente sotto copertura per reati contro la PA. Una prasi che di solito si applica a reati di mafia. Un aspetto che caratterizza come eccellenza l’operato della Questura diretta da Renato Panvino. L’inchiesta, iniziata dall’allora dirigente della Mobile Davide Bitorzoli e conclusa da quello attuale, Costantino Belvedere, si è avvalsa dell’agente fintosi imprenditore nautico. La conferma della «totale infedeltà» dell’indagato sarebbe venuta da intercettazioni nel corso delle quali si mostrava disponibile anche a consegnare un telefono cellulare, una foto e un messaggio in lingua straniera a un detenuto turco. Si trattava di uno degli scafisti imputati per la strage di Cutro, totalmente ignaro dei fatti.

VENTAGLIO DI PRESTAZIONI

«Buonasera, scusi, l’ingresso del carcere è questo?». Così l’undercover avrebbe avvicinato Giaquinta. Dalla richiesta di informazioni su uno straniero detenuto si è subito passati a un rapporto confidenziale. Dopo aver negato di poter svelare informazioni, Giaquinta avrebbe lasciato il telefono cellulare in auto e poi si sarebbe allontanato. L’infiltrato avrebbe così spiegato di cosa aveva bisogno e Giaquinta avrebbe manifestato grande scioltezza nell’accogliere le sue richieste. Nessuna resistenza. Giaquinta avrebbe preteso immediatamente il pagamento del prezzo stabilito per la foto (100 euro) e poi sarebbe passato al successivo ventaglio di prestazioni, a cominciare dall’introduzione in carcere dal telefonino. Si sarebbe riproposto anche di far arrivare denaro al detenuto, qualora i familiari avessero voluto inviargli delle somme. «Portami il telefono e 1500 euro. Nel giro di due giorni gli attivo tutto e mando tutto a lui».

LO SHOPPING

Ma era soltanto la conferma a elementi di indagine da cui verrebbe fuori che Giaquinta, rapportandosi con alcuni detenuti, avrebbe anche manifestato la possibilità di manomettere il registro dei colloqui per far ottenere colloqui aggiuntivi. In cambio di 3mila euro, stavolta. Sono in tutto sedici i capi d’accusa relativi ad atti contrari ai doveri d’ufficio che Giaquinta avrebbe compiuto, spesso su mandato dei familiari dei detenuti. La consegna di denaro avveniva all’esterno del carcere. Per esempio, nel piazzale antistante un bar. Le intercettazioni documento perfino lo sfregamento delle banconote, mentre Giaquinta contava i soldi. Subito dopo contattava la moglie per andare a fare shopping.

IL “PRESTITO”

In un caso, avrebbe incassato un “prestito” di 1500 euro per favori a un detenuto. Ad un altro avrebbe preso 700 euro per la consegna di un cellulare. Il detenuto si lamentava di ritardi nella consegna ricordando quale fosse la sua provenienza, cioè il fatto che era di Isola Capo Rizzuto, quasi come se essere originari di quel territorio costituisse una minaccia. Giaquinta, secondo la ricostruzione degli inquirenti, assicurava la consegna, «intimidito», ricordando che aveva già in passato fatto avere un telefonino al suo interlocutore e osservando che i ritardi erano connessi alle difficoltà insosrte. E subito dopo veniva monitorato mentre usciva da un garage con una busta che riponeva sul sedile della sua auto. Ai poliziotti che lo pedinavano non sfugge il lancio della busta dal finestrino. Dentro, trovano tre scatole di tre diversi telefonini con relativi scontrini emessi da un centro commerciale. Secondo gli investigatori, si era disfatto delle scatole. Quei telefonini, acquistati dai familiari del detenuto, li avrebbe poi introdotti in carcere l’indagato. Documentato, subito dopo, anche il traffico vocale tra detenuto e familiari.

GLI ALTRI INDAGATI

Un modus operandi rodato, insomma. La gip ha respinto la richiesta di misura in carcere per altre dodici persone, tra detenuti e loro familiari. Indagati sono anche Leonardo Passalacqua, di 26 anni, Rocco Marchio (32), Domenico Passafaro (32), Lucia Torromino (32), Roberto Foglia (59), Antonio Gaetano (43), Antonio Crugliano (29), Donatello Mancuso (34), Francesco Aloe (31), Silvana Pignalosa (63), Veronica Fazio (29), Pasquale Graziano (30), Giuseppe De Leo (35), Giuseppe Posca (43), Patrizia Demeco (43), Ana Francesca Nita (21).

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