Con l’adesione al Safe l’Italia si allinea agli impegni con la Nato. L’analisi di Marrone (Iai)
- Postato il 6 agosto 2025
- Difesa
- Di Formiche
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La conferma si è fatta attendere ma è decisiva: l’Italia aderirà al Safe – Security Action for Europe – il fondo Ue per la difesa da 150 miliardi. Con l’aggiunta di Roma, sono diciotto gli Stati membri dell’Ue che hanno deciso di ricorrere ai prestiti comunitari per finanziare spese militari, aderendo allo strumento lanciato da Bruxelles per mobilitare fondi a sostegno dell’industria bellica continentale. La scelta le garantirà 14 miliardi di euro in prestiti a tassi agevolati, da impiegare nei prossimi cinque anni e da rimborsare in quarantacinque.
Il vincolo? Investire in sistemi d’arma prodotti principalmente in Europa, su capacità considerate strategiche dalla Commissione.
Il volume complessivo delle richieste sfiora già 127 miliardi di euro, con la sola Polonia che ha prenotato circa un terzo delle risorse disponibili. Safe diventa così il primo grande banco di prova del piano Readiness 2030 (già ReArm Europe), la strategia con cui Bruxelles punta a superare decenni di sottodimensionamento e frammentazione della spesa militare europea.
Chi ha aderito e chi no
Diciotto Stati hanno colto l’occasione: oltre all’Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, tutti i grandi dell’Est (Polonia, Romania, Ungheria, Bulgaria), la Francia, la Finlandia, i tre Baltici, Slovacchia, Cechia, Cipro e Belgio. Un fronte trasversale che unisce Est e Sud, socialisti e conservatori, spinto dalla stessa urgenza: aggiornare arsenali e filiere industriali.
Restano fuori i Paesi Bassi, la Svezia, la Danimarca, l’Austria, l’Irlanda, il Lussemburgo e soprattutto la Germania, che ha scelto di finanziare i propri programmi militari con risorse nazionali. Ma la finestra resta aperta fino al 30 novembre 2025 e margini per allargare la platea ce ne sono ancora.
Cosa finanza Safe
Safe si articola su due livelli. Il primo è il procurement urgente: munizioni, artiglieria, capacità terrestri, droni e sistemi anti-drone, mobilità militare e protezione delle infrastrutture critiche; mentre il secondo è rappresentato dalle Capacità strategiche di lungo periodo: difesa aerea e missilistica integrata, sistemi navali di superficie e subacquei, trasporto e rifornimento in volo, C4istar, assetti spaziali e cyber.
Il meccanismo punta a prestiti a 45 anni a tassi competitivi, esclusi dal calcolo del deficit, con prefinanziamenti fino al 15%. Ma c’è un vincolo: almeno il 65% della componentistica deve essere di origine europea. Il restante 35% potrà provenire da partner come Usa e Regno Unito, per garantire interoperabilità senza sacrificare la crescita dell’Edtib (European Defence Technological and Industrial Base). La norma prevede acquisti congiunti fra almeno due Paesi, ma Bruxelles ha già concesso una deroga temporanea per i progetti mono nazionali, pur di accelerare la partenza del programma.
L’Italia dentro Safe
“L’obiettivo del Safe è chiaro, ed è armare le forze armate europee affinché queste possano dissuadere un attacco russo, in particolare verso i Paesi esposti, come i Baltici, la Finlandia e la Polonia”, spiega Alessandro Marrone, responsabile del programma Difesa, sicurezza e spazio dell’Istituto Affari Internazionali.
Safe è quindi uno strumento di deterrenza, pensato per accrescere la prontezza operativa delle forze armate continentali. Per l’Italia, questo significa allineare le capacità militari nazionali a un percorso di crescita del bilancio difesa che, secondo gli impegni assunti dal governo Meloni “poco più di un mese fa all’Aia”, punta ad arrivare al 3,5% del Pil entro dieci anni. Un balzo significativo, considerando che “solo l’anno scorso la spesa era all’1,5% e oggi il governo dichiara di voler raggiungere il 2%”, ma senza che il nuovo Documento programmatico pluriennale 2025-2027 abbia ancora chiarito cosa verrà effettivamente conteggiato, sottolinea l’analista dello Iai.
“Safe è concepito per equipaggiamenti e sistemi d’arma: difesa aerea e missilistica, contrasto ai droni, mezzi pesanti per l’esercito, navi da guerra, aerei da combattimento”, spiega Marrone. Che aggiunge: “La difesa italiana ha già avviato decine di programmi di ammodernamento e nuove acquisizioni, ma con fondi troppo limitati – spalmati su decenni – che riducono la prontezza, aumentano i costi unitari e rallentano la produzione”. L’iniezione di risorse europee dovrebbe servire proprio ad accelerare questi cicli e a ridurre inefficienze e duplicazioni.
C’è poi un secondo fronte: quello della mobilità militare, cruciale per la Nato e per l’Ue. Spostare rapidamente le forze dall’Ovest all’Est del continente richiede porti, ferrovie, autostrade, aeroporti e ponti adeguati. L’Italia è parte integrante di questi piani: “Ospita in provincia di Varese il Nato Rapid Deployable Corps, che in caso di crisi deve muoversi in poche ore verso Baltici, Polonia o Finlandia”, afferma l’analista. In questa prospettiva rientrano interventi su porti adriatici, valichi alpini e linee ferroviarie est-ovest, ma, Marrone avvisa: “Considerare il Ponte sullo Stretto un’opera strategica militare è una forzatura, perché l’intera logica Nato e Ue della mobilità militare guarda verso Est”.
Infine, c’è il nodo del coordinamento industriale. L’esperto accoglie positivamente la decisione di Palazzo Chigi di un polo della Difesa nazionale per pianificare l’uso dei fondi Safe: “È una buona notizia, purché il primo obiettivo resti soddisfare i requisiti militari delle forze armate, rafforzando al contempo la base tecnologica e industriale nazionale”.
Safe, se impiegato in modo coordinato ed efficace, sarà per l’Italia un acceleratore strategico, contribuendo a garantire prontezza operativa e capacità di deterrenza, elementi oggi più che mai indispensabili per la difesa dei singoli Stati e per la costruzione di un’Europa più forte e sicura.