Com’è nato il risotto allo zafferano? Il nuovo romanzo di Stefano Ferri racconta
- Postato il 12 novembre 2024
- Arti Visive
- Di Artribune
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Il suo essere se stesso e fuori dagli schemi, l’amore per la libertà anche quando deve scontrarsi con pregiudizi e luoghi comuni duri a morire. Essere se stessi, un concetto semplicissimo quanto complesso. Questo e molto di più è Stefano Ferri (Milano, 1966) giornalista e scrittore, noto volto televisivo: dopo Crossdresser. Stefano e Stefania, le due parti di me del 2021, è da poco uscito in libreria il suo nuovo romanzo Due vite una ricompensa (Ugo Mursia Editore). Un libro ambientato nella Milano – la sua Milano – tra l’Anno Mille e il XVI Secolo che racconta anche come e perché il risotto alla milanese divenne “giallo”. Un libro storico ma attualissimo, un romanzo d’amore ma anche di resilienza, di inclusione e che celebra il destino.
Lo sguardo dentro di sé. Intervista a Stefano Ferri
Dopo Crossdresser. Stefano e Stefania, le due parti di me del 2021, a fine settembre è uscito il tuo nuovo romanzo Due vite una ricompensa. Come nasce l’ispirazione del libro e qual è il linguaggio?
Il libro nasce da molto lontano, da un pranzo domenicale dell’aprile 1981. Ero in Brianza a mangiare il risotto insieme ai miei genitori, a mia sorella e ai miei zii. Non avevo nemmeno quindici anni. Fu in quell’occasione che mio zio, milanese purosangue, mi svelò l’ingrediente fondamentale del nostro risotto: non lo zafferano, come credevo, bensì una cosa incolore chiamata midollo di bue. Trasalii, non tanto perché nemmeno sapevo che esistesse, quanto piuttosto perché fui colpito da una domanda che da allora non mi ha mollato più: chi si inventò di mangiare una roba del genere e per quale motivo? Feci alcune ricerche, complice un’ampia sezione della mia biblioteca privata dedicata alla storia di Milano, ma non trovai nulla se non quanto ancor oggi si reperisce facilmente attraverso Google.
Ossia?
Ossia che il risotto giallo nacque l’8 settembre 1574 al matrimonio della figlia dell’impresario del cantiere del Duomo a causa di uno scherzo ideato e realizzato da uno dei di lui artisti, che s’era innamorato della sposa venendone respinto. Questo ragazzo veniva chiamato “zafferano” perché proprio con lo zafferano dipingeva i rossi e i gialli dei quadri della futura cattedrale, e fu con la “sua” spezia che sardonicamente firmò la portata principale del banchetto di nozze, cioè il risotto, a quei tempi ancora bianco come da ricetta originaria perché condito solo col midollo. Ebbene, altro che scherzo. Quell’episodio non soltanto cambiò per sempre il risotto, colorandolo appunto di giallo, ma pure sdoganò il riso come piatto nobile, capace di raggiungere le tavole dei conti, dei marchesi, dei principi e persino dei re, laddove sino al giorno prima era stato tipico della povera gente e basta. Da allora iniziò la fortuna e la leggenda del riso, diffondendosi ben oltre Milano e il Ducato, e raggiungendo ogni angolo del mondo in una profusione di ricette. Ho trovato affascinante come tutto ciò sia nato da un gesto di disperazione, perché solo in risposta a un bisogno estremo si può spiegare il fatto che qualcuno, nella notte dei tempi, abbia raschiato l’osso di un bue mangiandone il contenuto.
Come è arrivata l’idea di raccontare la Milano e i personaggi attraverso il risotto alla milanese? Qual è l’idea comune e l’origine di questo libro?
Al di là della genesi del libro, di cui ho raccontato più sopra, devo dire che non avevo in programma di narrare Milano. Il progetto era di seguire soltanto il filo rosso (anzi, giallo) del risotto. Fu in corso d’opera che mi resi conto di non poter prescindere dalle vicende della città. Dopo la parte medioevale, ambientata quasi per intero in uno sconosciuto feudo alla periferia del Regno di Lombardia, mi ritrovai in una Milano rinascimentale in cui il risotto s’era talmente viralizzato – diremmo oggi – da costituirsi come un tutt’uno coi costumi, la mentalità, le usanze della popolazione. Per cui, raccontarlo significava raccontare anche le vicende storiche di Milano.
I temi del nuovo libro di Stefano Ferri
Nel libro si parla di diversità, di resilienza. La resilienza è un termine che sembra oggi di moda rispetto alla “resistenza”: è invece un concetto molto profondo di come superare sfide ed ostacoli… La resilienza è un dono o si può imparare?
Non auguro a nessuno di dover essere resiliente. Resilienza è concetto assai male interpretato, quasi sempre venato da un’insopportabile retorica stile “volere è potere”. Invece, piaccia o no, nessuno di noi è in grado di controllare l’enormità delle variabili che ci separano dal coronamento dei nostri sogni. Ci è dato di fare soltanto quello che possiamo, e ciascuno ha il dovere morale di farlo. Il resto va come va, e spesso va male o comunque non come ci aspetteremmo. È precisamente di questo che parla il mio romanzo.
Perché la resilienza, secondo la tua opinione, viene considerata un concetto fondamentale per la nostra crescita personale? Appunto perché viviamo sotto il pregiudizio del “volere è potere”, e di questo pregiudizio ci riempiamo la bocca senza considerare l’abnorme ruolo della fortuna nelle vite di tutti. Woody Allen, nel proemio di uno dei suoi film più belli (Match Point, 2006), fa affermare alla voce fuori campo che le religioni nascono dal terrore che abbiamo di ammettere quanta parte delle nostre esistenze sia in mano al caso. Ed è proprio così: il caso, definibile come l’intreccio delle variabili che non siamo in grado di controllare, domina le nostre vite e a noi non resta – come dicevo prima – che fare quanto possiamo. La frase latina “quisque faber fortunae suae” è un errore, probabilmente opera di un uomo fortunatissimo che si credeva un genio. Niccolò Machiavelli ci aveva visto giusto quando equiparava la fortuna alla virtù, per cui dare del bravissimo a un uomo di successo significa dargli del fortunatissimo. Basterebbe interiorizzare questo principio per eliminare la superbia dalla faccia della terra.
Qual è il valore della “diversità” e il valore nella narrazione del romanzo?
Anche qui, mi sono sorpreso di come i personaggi abbiano preso corpo e vita ben al di là dei miei progetti iniziali. Guglielmo, il protagonista della prima parte, è un “diverso” rispetto alla cultura dominante del suo feudo, che prevedeva la totale sottomissione della donna all’uomo nel nome del cristianesimo fanatico. Lui rifiuta tutto ciò, al punto di credere che la tragedia della malattia della moglie sia la punizione di Dio per averla “amata troppo”. Nella seconda parte si stagliano altre diversità, di cui non desidero anticipare nulla ma che si accomunano alla vicenda di Guglielmo nel segno del dramma. Le persone hanno paura del diverso. Il diverso crea squilibrio rispetto alle certezze di cui una società necessita per vivere in armonia, e per questo viene condannato: condanna profondamente ingiusta e persino anti-fisiologica, se si considera che le società, per continuare a esistere, cioè per conservarsi, hanno bisogno non solo di certezze ma pure di evoluzione, di cambiamento, dunque di diversità. È uno dei segni più forti della contraddittorietà della natura umana.
La società odierna secondo Stefano Ferri
Molte volte hai raccontato episodi spiacevoli sulla reazione che alcuni hanno al tuo essere un crossdresser, ricordo anche un episodio in particolare in metropolitana a Milano che ha raccontato sui social. Come reagisce a sguardi e ad atti discriminatori?
In 22 anni da crossdresser ho imparato a ignorare gli sguardi della gente, altrimenti verrei meno al mio primo obiettivo, che è quello di vivere una vita normale. Poi ovvio, ci sono casi, come quello che citi, in cui le reazioni sono talmente evidenti da non poterne prescindere, e per fortuna sono pochi. In tal caso mi torna utile l’ironia. Quanto agli atti discriminatori, quelli sono il vero problema, perché compiuti con malafede scientifica e accurata preparazione, e puntano a escluderti, a cacciarti sotto a un ponte, a tagliarti da tutto ciò che conta. Ne ho subiti a bizzeffe, anche da insospettabili. Contro di essi non puoi che opporre la resilienza – ed è precisamente per questo che non la auguro a nessuno.
Lo zafferano, “questa pietanza sconosciuta”, come elemento di condivisione ed inclusione, metafora preziosa. Il riso è l’elemento che unisce questa grande storia d’amore: personaggi che amano, sanno amare, senza aspettarsi nulla
Hai detto bene. Due vite una ricompensa è una storia d’amore. Storia plurigenerazionale, perché attraversa quasi sei secoli. Ma anche vicenda potente – posso dirlo perché non l’ho inventata io, è realmente avvenuta, l’ho solo ricostruita – che mostra come l’amore davvero muova «il sole e l’altre stelle».
Siamo arrivati oggi alla famigerata “società liquida”, frenetica, aggressiva, precaria ed incerta, usa e getta: la cronaca è piena di episodi di violenza, discriminazioni, frustrazione, bullismo. Che Paese stiamo consegnando ai ragazzi ed alle ragazze? Abbiamo un grande problema culturale?
Ai ragazzi e alle ragazze stiamo consegnando il Paese che noi boomer – generazione sostanzialmente fallita – abbiamo forgiato abdicando al nostro ruolo educativo. Non dobbiamo dimenticarci che veniamo da trentadue anni a crescita zero, un periodo lunghissimo e imprevedibile di cui nemmeno si vede la fine, e che proprio durante questo periodo abbiamo assunto il triste record di essere la prima generazione, in due secoli, ad avere meno soldi di chi l’ha preceduta. Troppo benessere, troppa pigrizia, troppo inutile ripiegarsi su un presente comodo e opulento hanno chiuso il virtuoso meccanismo culminato per noi italiani nel boom, e con esso se ne sono andate anche le illusioni di ricchezza. A cavallo degli Anni Dieci, con l’arrivo dei linguaggi digitali, venne l’agognata occasione per dimostrare che l’anagrafe mentiva e che a noi tutti veniva dato di tornare giovani e giocarci mille nuove possibilità. Bastava infilare hashtag ovunque, postare su Twitter un minuto sì e l’altro pure, sostituire Manzoni con Sferaebbasta, Pascoli con Lazza, Leopardi con J-Ax. Quest’isteria è ben sintetizzata dal professor Crepet quando lamenta che i genitori oggi vogliono essere più giovani dei figli, e ha creato numerosi cancri sociali, su tutti una generazione priva di riferimenti (gli adolescenti di oggi). Non ho idea di cosa accadrà, quantomeno posso definire il problema nei termini che ho appena usato, illudendomi di dare in tal modo un contributo a risolverlo.
Cosa ci insegna Due vite, una ricompensa? Qual è il messaggio che vorrebbe fare arrivare a tutti?
Due vite una ricompensa intende mostrare una delle più profonde e amare regolarità dell’esistenza umana: che se da un lato non è vero in assoluto che chi la dura la vince, dall’altro è sempre vero che un sacrificio onesto e amorevole lascia un segno, per quanto eventualmente diverso dall’intento originario, come un seme che porta frutto ai posteri e non a chi lo ha piantato.
Alessandra Paparelli
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L’articolo "Com’è nato il risotto allo zafferano? Il nuovo romanzo di Stefano Ferri racconta " è apparso per la prima volta su Artribune®.