Come la poesia di Mandel’stam sopravvisse a Stalin grazie all’amore di sua moglie

  • Postato il 2 agosto 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Un uomo cammina a fatica di notte, piove. Siamo nella Mosca staliniana. Anni Trenta. Spie dovunque, tutto deve essere sotto controllo.
L’uomo che cammina è giovane, ma le gambe tremano; è malnutrito (vive di tè, fuma, qualche rara volta la moglie riesce a procurarsi e cucinare un pugno di ceci, altre volte un uovo, che divide col marito). Scrive poesie, non dovrebbe, non deve. Quando ci sono le perquisizioni nella topaia che puzza di muffa e che condivide con la moglie gli scagnozzi del regime, frugando tra le sue carte, non devono trovare poesie. Né devono trovare dell’inchiostro. L’ordine arriva da Stalin: le poesie dell’uomo non devono sopravvivere. Rischierebbe o il confino o la condanna a morte se ne trovassero.

L’uomo si chiama Osip Mandel’stam. Soffre di cuore. Vive per la poesia. Quello che scrive, però, lo brucia nella stufa. Deve.
Avrete soltanto il mio cadavere, la mia poesia sopravvivrà su di voi.
Ha osato troppo. Ha definito Stalin “Il montanaro del Cremlino” dalle grosse dita come vermi e dagli occhi da blatta.
Accanto a lui la moglie Nadežda. Se la poesia di Mandel’estam non è stata dimenticata lo dobbiamo a lei, che impara a memoria i suoi versi.
Leggendo il libro di Giorgio Bona, pubblicato da Arkadia, Volevo soltanto salvare la mie parole si rivivono gli ultimi mesi di vita di Osip Mandel’estam (1891-1938). Meno famoso di Majakovskij e di Esenin, ma grande come loro.

Bona scopre Mandel’stam nel 1981, durante un viaggio a Mosca. Ne acquista l’opera completa, inizia a leggerlo, a chiedere di lui. Viene così a sapere che il poeta aveva vissuto gli ultimi mesi a Mosca, prima della sparizione e della morte in un campo di lavoro siberiano, Poi, una volta rientrato in Italia, Bona cerca tutto ciò che si trova su Mandel’estam. E dopo aver letto L’epoca e i lupi della moglie di Mandel’stam, Nadežda, comincia a pensare di scrivere un libro su di lui. Mette giù così una prima bozza, ma non lo convince. Aspetta, intanto scrive altri libri (romanzi politico-sociali come Da qui all’eternit o La lacrima della giovane comunista) finché arriva questa terza, ultima versione.

Sono pagine che commuovono. Mandel’estam è un uomo che sa di non avere futuro, ed è malato, ma al suo fianco ha una grande donna, Nadežda. Sebbene non riesca a reggersi in piedi il poeta non si piega, come non si piega sua moglie. Chiede aiuto ad altri poeti, che però lo evitano, è pericoloso farsi vedere con lui, solo Boris Pasternak gli allunga qualche rublo per poi, però, evitarlo. E quando lo ricoverano perché la miocardite peggiora sempre più, Mandel’estam, in ospedale, riceva la visita di Nikolaj Ežzov, Commissario del Popolo e braccio destro di Stalin, che gli dice: “Ho letto le sue poesie. Non sono granché. Anzi devo dire proprio che non mi piacciono per niente. Hanno ragione. Meglio che lei non scriva”.

Ma Mandel’estam non è un vinto. È disperato ed è soprattutto solo, certo.

Quella degli scrittori è una razza dalla pelle puzzolente e dalla cucina sudicia. È una razza nomade che dorme nel proprio vomito, cacciata dalla città, perseguitata in campagna, ma sempre e ovunque prossima all’autorità, alla quale concede un posto nei quartieri riservati alle puttane. Perché la letteratura adempie a un’unica funzione: aiuta i capi a preservare la disciplina tra i soldati e i giudici a massacrare i condannati.

Osip Mandel’stam voleva soltanto salvare le sue parole. Ce l’ha fatta, grazie alla moglie che memorizzava i suo versi (gli scagnozzi di Stalin a questo non avevano pensato) nonostante Ežzov, nonostante Stalin. “Se domandassero di pronunciarmi sulla natura di questo romanzo non esiterei a definirlo un atto d’amore” ha scritto Giorgio Bona. Infatti. Leggendo Volevo soltanto salvare la mie parole ci si imbatte nell’amore. In quello – smisurato – di Mandel’stam per la poesia, (la sua ma non solo, aveva sempre in testa Dante); in quello di Nadežda per il marito; e in quello di Giorgio Bona: un amore nato nel 1981 per le strade di Mosca e riversato nelle pagine di questo libro.

“Volevo soltanto salvare la mie parole”, di Giorgio Bona, Arkadia editore

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Il Fatto Quotidiano

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