Clean Money, il ruolo delle cosche di Cutro e Isola negli assetti criminali di Catanzaro
- Postato il 27 febbraio 2025
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Il Quotidiano del Sud
Clean Money, il ruolo delle cosche di Cutro e Isola negli assetti criminali di Catanzaro
Il boss di Cutro Grande Aracri dettava legge dopo la caduta degli Arena di Isola. Gli scenari svelati dall’inchiesta Clean Money
CUTRO – Gli affiliati ai clan operanti a Catanzaro si muovevano sotto l’egida delle cosche del Crotonese, e in particolare all’ombra del potente boss di Cutro Nicolino Grande Aracri, tanto che erano terrorizzati dal suo tentativo di collaborazione con la giustizia, poi rivelatosi una farsa. Per esempio, Pietro Procopio, uno dei presunti capi del clan dei Gaglianesi, commentando la notizia del possibile pentimento, temeva che il boss avrebbe potuto fare il suo nome perché una volta era stato “convocato” a Cutro. Grande Aracri voleva indicarlo come suo referente nel capoluogo. Procopio non accettò e la scelta cadde sulla figura dell’avvocato Gennaro Mellea, detto Pierino. L’inchiesta che ha portato all’operazione Clean Money delinea proprio l’ultimo decennio dell’operatività del clan dei Gaglianesi, che risente molto degli assetti criminali del Crotonese.
LA TAVERNETTA DI GRANDE ARACRI
Come hanno ben spiegato il nuovo procuratore distrettuale antimafia di Catanzaro, Salvatore Curcio, e il procuratore facente funzioni (fino a poco tempo fa) Vincenzo Capomolla, che ora è divenuto procuratore di Cosenza ma ha coordinato l’inchiesta dei carabinieri, questa storia criminale inizia con la scarcerazione, dopo un lungo periodo di detenzione, di Grande Aracri, nel 2011. Dalle conversazioni captate nella sua tavernetta si ricostruisce tutto un “mondo”. La prima cosa di cui il boss di Cutro si occupa appena rimette piede nel suo bunker è garantire il sostentamento del capo dei Gaglianesi, allora indicato in Girolamo Costanzo, condannato all’ergastolo per un omicidio. Ma al clan dei Gaglianesi si affianca il gruppo guidato da Mellea, diretto referente a Catanzaro dei Grande Aracri. Nelle aree periferiche del capoluogo spadroneggiano, invece, gruppi rom.
LA CADUTA DEGLI ARENA
L’invasione di campo di Mellea a Catanzaro viene però vissuta male dai Gaglianesi. Perché era stato scalzato Costanzo? Perché vicino agli Arena di Isola Capo Rizzuto, soppiantati dal boss di Cutro. Siamo negli anni in cui Grande Aracri era il capo crimine e aspirava a fondare una nuova “provincia” di ‘ndrangheta. L’ imposizione era una conseguenza della caduta degli Arena, come sancito da un summit presieduto da Grande Aracri a cui partecipò lo stesso reggente dei Gaglianesi, Lorenzo Iiritano, che emerge successivamente come il capo del clan catanzarese. Ma era una “corona”, quella messa sul capo di Mellea, soltanto per fare da vedetta al boss di Cutro, come commentavano gli stessi affiliati catanzaresi. Lo scombussolamento negli ambienti criminali del capoluogo era tale che perfino un fedelissimo di Mellea, come Roberto Corapi, sarebbe andato a scusarsi con Iiritano.
Il RUOLO DEI SANLEONARDESI
Non ci sono arrestati originari del Crotonese nell’operazione, ma soltanto un indagato a piede libero, Mario Scerbo, di San Leonardo di Cutro, peraltro già detenuto dopo la condanna nel processo Jonica per il racket sul turismo imposto dalla cosca Mannolo. Scerbo, in particolare, è accusato di essere stato il finanziatore, con l’immissione di un capitale di 45mila euro, di un’operazione finalizzata alla costituzione di una società, Alipadania, con sede legale a Borgo Ticino, nel Novarese, e sede operativa a Pagliano Milanese, utilizzata per truffe consistenti nell’ordinare merce e servizi senza adempiere agli obblighi. I materiali sarebbero stati poi trasferiti presso magazzini di società riconducibili agli indagati Giuseppe Procopio e Giuseppe Rijtano.
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LA RAPINA AL CAVEAU
I legami dei Gaglianesi erano anche con il clan di San Leonardo di Cutro, dunque. Pietro Procopio avrebbe peraltro avuto un ruolo nell’assalto al caveau di Caraffa fruttato otto milioni e mezzo ai rapinatori e deciso dalle cosche del Crotonese. Dopo che sono state già condannate in via definitiva sei persone per la maxi rapina del dicembre 2016, la Corte di Cassazione ha riconosciuto l’aggravante mafiosa per Dante Mannolo, nipote del boss di San Leonardo di Cutro Alfonso Mannolo, e per il catanzarese Giovanni Passalacqua, ideatore del colpo, confermando la sentenza della Corte d’appello bis che aumentava per entrambi la pena a 14 anni di reclusione, pari a quella inflitta in primo grado. In particolare, il ruolo di Procopio sarebbe stato quello di mettere a disposizione del commando capannoni da lui gestiti per il ricovero dei mezzi utilizzati per il “colpo”.
BOTTINO DISSOTTERRATO
La collaboratrice di giustizia Anna Cerminara, del resto, ha raccontato agli inquirenti che c’era anche Procopio fra quanti, insieme a lei e Passalacqua, assistettero a una scena incredibile. Siamo a San Leonardo di Cutro. Dante Mannolo dissotterra i borsoni contenenti una parte del bottino e mostra a tutti i bigliettoni. Secondo quote preventivamente stabilite, la parte spettante ai catanzaresi l’avrebbe incassata proprio Procopio.
Il Quotidiano del Sud.
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