“Cinque sì anche per chi non potrà esprimerli”: l’appello dei carcerati di Rebibbia sui referendum di giugno
- Postato il 6 maggio 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Vorrei oggi utilizzare questo spazio per lasciare la parola a persone che ne hanno poca e che fanno fatica a fare ascoltare la propria voce. Sono persone attualmente detenute nel carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso, che collaborano con Antigone attraverso la loro partecipazione alla trasmissione radiofonica “Jailhouse Rock”, per la quale ogni settimana da tanti anni – insieme a un’analoga redazione nel carcere milanese di Bollate – realizzano un giornale radio dal carcere, il Grc.
“Cinque sì anche per chi non potrà esprimerli”: questo il titolo del breve appello che hanno redatto in vista dei referendum dei prossimi 8 e 9 giugno.
Lavoro e cittadinanza sono sinonimi di integrazione. Senza lavoro e senza cittadinanza si è esclusi dalla vita sociale. Per questo i cinque referendum che a breve ci vedranno impegnati nel voto riguardano specificatamente anche le persone private della libertà. Molte di loro hanno vissuto esperienze di sfruttamento, insicurezza, marginalizzazione, discriminazione. Dunque la materia referendaria li riguarda, in considerazione delle loro biografie passate e in vista del loro reinserimento futuro.
Si pensi ai due temi paradigmatici della cittadinanza e del divieto di subappalti. La costrizione alla irregolarità da parte di una legge sulla cittadinanza italiana tanto feroce quanto quella attuale produce manodopera irregolare a basso costo di personale straniero privato di ogni diritto, venduto di società in società come se fosse merce. I cinque referendum costituiscono un attacco al potere delle mafie, degli imprenditori che vivono del lavoro nero altrui.
Questo il testo dell’appello che ci arriva dalla redazione di “Jailhouse Rock” nel carcere romano di Rebibbia: “Qualcuno – magari fra quelli che dicono ‘buttate le chiavi e lasciateli in galera’ – dirà che non sono fatti nostri, che non ne sappiamo nulla. Ma pure se non se ne parla mai, anche nelle carceri c’è il lavoro. Duro, sfruttato, sfruttatissimo, mal retribuito, concesso dalle direzioni come un privilegio non come un diritto. Perché in carcere sono i detenuti a pulire le celle, i corridoi, a portare il vitto, a scrivere le domandine, a tagliare l’erba nei cortili. Con un salario che serve a pagare la permanenza dietro le sbarre e, nel migliore dei casi, a mandare pochi euro a casa. Per quelle famiglie che contavano solo sulle entrate di chi ora è privato della libertà. Sì, in carcere, a Rebibbia c’è il lavoro. Ed è duro, sfruttato. Senza diritti. Ecco perché chiediamo a chi sta fuori di andare a votare al referendum di giugno. Di andare a votare sì, per abrogare le norme che hanno ridotto i diritti sul lavoro, i diritti delle persone che vivono in questo paese. Magari – perché non sperarlo? – far crescere i diritti ‘fuori da queste sbarre’ avrà ricadute anche per chi vive e lavora dietro quelle sbarre”. Un appello civico significativo, che speriamo possa contribuire a spingere al voto.
Votare significa rivendicare dignità. Nel Sudafrica di Nelson Mandela, la Corte Suprema affermò nel lontano 1999 che a tutti, nessuno escluso, dovesse essere garantita la possibilità di esprimere opinioni politiche e di votare. Nessuno escluso, neanche chi è privato della libertà personale. Il voto, scrisse la Corte, è segno di “appartenenza al genere umano”. È una delle forme attraverso cui si garantisce la dignità della persona. “Everybody counts”, affermò quella memorabile sentenza: attraverso il voto, ciascuno conta, ognuno vale uno.
Nel silenzio assordante e triste che sta accompagnando la campagna elettorale referendaria, le voci impegnate dei detenuti per cinque sì ai prossimi referendum restituiscono speranza.
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