Cina, fine dei sussidi per l’auto elettrica. Il mercato ora deve fare da sé
- Postato il 31 ottobre 2025
- Fatti A Motore
- Di Il Fatto Quotidiano
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Non sembra casuale il tempismo con cui il Governo cinese annuncia l’interruzione degli aiuti pubblici alla diffusione sul mercato nazionale delle vetture elettriche e plug-in (queste ultime sono ibride con batteria di grande taglia, ricaricabile da fonte di corrente esterna) e di aver raggiunto un accordo sulla fornitura all’occidente di terre rare, indispensabili per costruire batterie.
La decisione di interrompere i sussidi statali costituisce uno spartiacque importante per la Repubblica Popolare: è una prova di maturità per il mercato delle cosiddette Nev (New energy vehicles), come vengono chiamate localmente le vetture elettrificate, che, per la prima volta da tre lustri, dovrà sostenersi da solo. E lo è anche per il business di molti costruttori cinesi, preludio di una possibile quanto inevitabile “selezione industriale naturale”.
In tempi recenti, in Europa, la Germania aveva sbagliato clamorosamente la stima di quanto il mercato delle vetture elettriche fosse pronto a stare in piedi sulle proprie gambe. Risultato? Mercato crollato e incentivi ripristinati dal 2026. In Cina, però, il contraccolpo potrebbe essere più contenuto: in primis perché il Governo facilita l’immatricolazione delle vetture elettriche rispetto a quelle tradizionali, che possono essere estremamente onerose da targare. In secondo luogo per via della maggiore diffusione delle vetture 100% elettriche – sono 7,7 milioni quelle immatricolate nel 2024, su un totale di 27 milioni di immatricolazioni di auto passeggeri – e della relativa rete di ricarica.
A maggiore rischio, come detto poc’anzi, saranno i costruttori (sono ben 129 i marchi del Dragone) più dipendenti dalle politiche statali, che fra il 2010 e il 2023 hanno beneficiato di qualcosa come 221 miliardi di dollari, distribuiti direttamente, sotto forma di sostegni statali, e indirettamente, come incentivi ai consumatori. Ed è proprio questa montagna di denaro, finita in parte nelle tasche delle aziende, ad aver innescato i dazi che l’Unione Europea impone alle elettriche esportate da Pechino.
L’atteso consolidamento dell’industria locale – inteso come riduzione delle aziende operanti nel settore automotive – dovrebbe parzialmente contribuire a risolvere il problema della sovracapacità produttiva dell’automotive cinese, con l’offerta che supera ampiamente la domanda, compresa quella estera. Ciò ha generato una guerra commerciale fra i car makers locali, portata avanti a suon di sconti e, di conseguenza, a scapito della redditività. Un trend insostenibile che, con la chiusura dei rubinetti statali, farà sopravvivere sul mercato solo le aziende con le spalle più grandi (e i conti più solidi). Il target ultimo di Pechino, quindi, è che l’automotive cinese possa reggersi sulle sue gambe, ovvero avere una capacità finanziaria propria.
E mentre taglia il cordone ombelicale con l’automotive, a seguito delle trattative con gli USA, la Repubblica Popolare mette in standby per un anno l’ulteriore stretta che aveva programmato per il prossimo dicembre sulla fornitura di terre rare ai costruttori esteri, già sotto scacco cinese. Giova ricordare che le terre rare sono indispensabili per la produzione di batterie per veicoli elettrici e la Cina ne controlla la catena del valore attraverso la sua predominanza nell’estrazione (circa il 70%), raffinazione (oltre il 90%) e nella produzione di magneti permanenti (oltre il 90%).
Insomma, allo stato attuale delle cose, quando si tratta di elettromobilità, l’automotive globale dipende dalla Cina. Il rinvio a fine 2026 della stretta cinese permette di far tirare un sospiro di sollievo anche all’industria europea delle quattro ruote, che dal 1° dicembre avrebbe rischiato un dannoso rallentamento della produzione, legato alla carenza di forniture Made in China.
Alcuni analisti sostengono che, nell’anno a venire, l’Europa potrebbe diversificare le catene di approvvigionamento per ridurre la dipendenza dalla Cina. Uno scenario che potrebbe avverarsi solo in parte: in prima istanza per via del sopracitato monopolio delle terre rare, detenuto dalla Cina. In seconda istanza perché difficilmente una (parziale) fornitura di terre rare e batterie non cinesi potrebbe essere altrettanto competitiva sotto il profilo dei prezzi. In conclusione, mentre Pechino “toglie i ruotini” alla sua industria automotive, si assicura che continuino ad arrivare montagne di soldi da parte dei costruttori esteri che vogliono fare business con l’auto a batteria, quest’ultima legata mani e piedi a ciò che decide l’amministrazione cinese oggi e, molto probabilmente, negli anni a venire.
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