Chiara la sfida mortale di don Puglisi alla mafia, sempre più opaco invece il comportamento dello Stato
- Postato il 15 settembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Mentre don Pino Puglisi, assassinato da Cosa Nostra nel giorno del suo compleanno il 15 settembre 1993 davanti alla sua parrocchia, cuore del quartiere Brancaccio di Palermo, è considerato dalla Chiesa cattolica martire, santo, elevato agli onori degli altari, chi contribuì in maniera decisiva a sbloccare le indagini sugli esecutori materiali dell’omicidio, diventando da quel momento un fantasma, è considerato dallo Stato un fastidio, un costo da ridurre se non da azzerare. E così Giuseppe Carini, al tempo dell’omicidio studente di medicina molto legato a don Pino Puglisi, da Testimone di Giustizia per anni inserito nel programma speciale di protezione (lo standard più alto di protezione garantito dallo Stato) si ritrova oggi a combattere, insieme a molti altri nelle medesime condizioni, contro burocrazie sorde, buchi normativi e prassi disumane, tra contributi pensionistici introvabili e timori per il disvelamento di dati sensibili.
Mentre le parole ultime e il sorriso disarmato (purtroppo non disarmante) di don Pino Puglisi, che guardando i suoi killer negli occhi disse “Me lo aspettavo”, aprirono un impercettibile varco nella coscienza di quei due mafiosi, Grigoli e Spatuzza, dentro cui germogliò il seme del rimorso che servì a spingere i due alla collaborazione con lo Stato, nessuna crepa pare ad oggi essersi aperta nella superficie liscia dell’animo dei mandanti, i due boss che a Brancaccio in quel periodo avevano lo stesso potere sulle vite altrui che avevano i nazisti ad Auschwitz, Giuseppe e Filippo Graviano. Tanto da far sospettare che questi due in realtà abbiano deciso per altre forme di collaborazione, diverse da quelle con la magistratura a fini di giustizia.
Mentre è chiaro il senso della sfida mortale che don Pino Puglisi lanciò contro Cosa Nostra lavorando incessantemente con i giovani di Brancaccio perché questi si ribellassero alla condanna esistenziale del “nient’altro che”, scoprendo la trasfigurante liberazione del “tutt’altro che” mafiosi, sempre più opaco è il senso del lavoro della Commissione parlamentare antimafia che, a partire dalla strage di Via D’Amelio, si affanna a frantumare ogni lettura di contesto capace di revocare in dubbio il “nient’altro che” mafia, disvelando scenari più complessi, che chiamano responsabilità altre.
Così, ad assumere malauguratamente codesto approccio nella vicenda di don Puglisi, sfumerebbe il collegamento tra la decisione di assassinarlo in quel settembre 1993 e la sequenza agghiacciante, simbolica, unitaria della violenza terroristico-mafiosa di quei mesi nei quali proprio il gruppo di fuoco comandato dai Graviano, fedeli alla linea di Riina ormai arrestato, aveva o avrebbe colpito nell’ordine: il giornalismo critico (Maurizio Costanzo), il patrimonio storico e artistico italiano (Firenze, Milano), i simboli cattolici (San Giorgio e San Giovanni a Roma), il centro del potere istituzionale (Palazzo Chigi al buio), i residuati di potere partitocratico in Sicilia (Ignazio Salvo), giovandosi senza dubbio di alleanze strategiche ed operative esterne a Cosa Nostra.
Caro don Pino, quanto bisogno ci sarebbe ancora oggi del tuo sguardo amorevole verso i giovani, cioè i più tormentati, i più vulnerabili, i più sfruttati da chi invece, senza scrupoli, ne fa merce.
Perché in fondo il centro dell’interesse delle mafie come di ogni altro potere indifferente alla dignità è il denaro. L’avidità muove tutte le guerre, quelle di mafia sono semplicemente delle subordinate. L’avidità nei mafiosi è soltanto più spudorata, come aveva lucidamente compreso il giudice Rocco Chinnici, le parole del quale, meticolosamente trascritte a mano su un foglietto, furono ritrovate addosso ad Angelo Siino, quando questi fu arrestato per la seconda volta nel 1997: “La mafia è tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza”. Il potere insomma come variabile dipendente, sempre più dipendente, dal denaro: d’altra parte i ricevimenti offerti da Trump alla Casa Bianca lo rappresentano in maniera plastica e forse irrimediabile.
Nel 1993 a scatenare la furia omicida di Cosa Nostra contro don Puglisi ci si mise anche Papa Wojtyla che il 9 maggio, nella Valle dei Templi di Agrigento, pronunciò parole inaudite contro la mafia: “E questi che sono colpevoli di disturbare questa pace, questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, devono capire, devono capire che non si permette di uccidere degli innocenti! Dio ha detto una volta: ‘Non uccidere’: non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio! (…) Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via verità e vita, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”. Se lo segnassero pure certi capi di Stato e di governo.
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