Casini: «Difesa con chi ci sta prezioso il ruolo di Starmer»

  • Postato il 6 marzo 2025
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Casini: «Difesa con chi ci sta prezioso il ruolo di Starmer»

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La guerra, il pacifismo ideologico, l’Italia nel mondo dopo Trump Pierferdinando Casini e il futuro dell’Europa: «Difesa con chi ci sta prezioso il ruolo di Starmer»


Pier Ferdinando Casini, in Germania un cancelliere non ancora insediato trova l’intesa con il partito di opposizione, con cui governerà, per riarmare la Germania, depoliticizzando l’emergenza. In Italia invece il pacifismo ideologico infiltra la maggioranza di governo, con le sortite di Salvini, e l’opposizione, con l’allinearsi di Schlein al radicalismo di Conte. Siamo Paesi diversi?

«Parto dalla Germania. Ritengo positivo l’esito del voto e ancor di più il fatto che governeranno democristiani e socialisti. In una fase in cui l’Europa subisce scosse telluriche, è importante che le grandi famiglie politiche che l’hanno costruita facciano un salto di qualità, assegnando alla Germania quel ruolo di traino che, da Adenauer a Merkel, passando per Kohl, ha sempre avuto. È importante che Berlino superi il tabù del riarmo, non per riaprire una stagione bellicista, ma perché la deterrenza si fa anche con la forza militare. La storia ci insegna che la scelta che ha favorito la distensione dopo la guerra fredda è stata l’installazione degli euromissili, assecondata non a caso da una classe dirigente che rispondeva ai nomi di Cossiga, Spadolini e Craxi. Ha ragione Macron quando dice che in un mondo di carnivori non c’è posto per gli erbivori. Se vogliamo difendere il sistema di valori della democrazia occidentale, dobbiamo fare scelte scomode e spiegarle al Paese. La politica non può solo speculare sui sentiment. Deve avere una pedagogia persuasiva e razionale. Scelte impopolari ma necessarie, come quelle che dobbiamo fare, vanno motivate con coerenza».

Non le pare l’esatto contrario di quello che si sente in questi giorni, a destra come a sinistra?

«In Italia maggioranza e opposizione sono, per ragioni diverse, molto frastagliate. Non è un bel vedere. Perché chi governa deve poter lavorare in modo omogeneo e coeso, e chi sta all’opposizione deve essere capace di proporre un’alternativa realistica».

Le sembra realistico dire, come fa Elly Schlein, no al riarmo nazionale e sì a un esercito europeo?

«Sto ai fatti. Nei comportamenti avuti in Parlamento sull’Ucraina, Schlein è stata ineccepibile. L’altro ieri ha spiegato che il piano della Von der Leyen non è la costruzione di una difesa europea. È vero, ma è anche vero che alla difesa europea non si arriva in un colpo solo. La strategia che prende piede in questi giorni deve esserne piuttosto il presupposto. Difesa europea vuol dire un sistema organico, in base al quale i tedeschi vanno avanti su un settore e noi su un altro, sulla base della volontà condivisa di mettere insieme le forze. Vuol dire, ancora, un’industria militare che non investe i soldi per gli armamenti commissionandoli tutti agli Stati Uniti. Perché, poi, questa è la malizia del disegno di Trump. Serve chiarezza d’intenti e leadership. Vediamo intanto come Von der Leyen lo spiega».

Però converrà che allinearsi alla propaganda dei Cinquestelle non è poi tanto pedagogico.

«Finora non vedo concessioni alla sinistra radicale su questo terreno. Per parte mia ho votato in Parlamento sull’Ucraina in piena coscienza, secondo il pensiero qui esposto, e ho trovato piena convergenza con il Pd. Non esito a dire che se il Pd avesse fatto scelte diverse, avrei risposto alla mia coscienza, ma non ho avuto fin qui il bisogno di smarcarmi. Non facciamo processi alle intenzioni. Vediamo piuttosto che accade nel futuro. Constato però che la sensibilità di Conte e quella di Schlein sono molto diverse».

Ma se la demagogia polarizza il dibattito pubblico su questioni così drammatiche, non c’è il rischio che una domanda di realismo politico e moderazione resti insoddisfatta?

«Siamo in una fase in cui i moderati sono chiamati a essere rivoluzionari. Perché la scelta di mettere in comune la politica estera di difesa ha connotati storici straordinari. Ed è storico il fatto che “UK is back”. Nel momento dell’emergenza torna a realizzarsi un lavoro comune tra Europa e Regno Unito. Mi pare una circostanza di una importanza strategica fondamentale».

Vuol dire che la leadership franco-britannica non è un elemento di confusione, ma di ricchezza per l’Europa?

«Che gli europei siano andati a un vertice convocato Starmer è un punto di svolta. Prova che la Brexit è stato un clamoroso errore e che i primi a capirlo sono stati gli inglesi. Ma la storia non è un nastro riavvolgibile all’indietro. La storia spinge oggi verso cooperazioni rafforzate, laddove ce n’è bisogno. In attesa di togliere il diritto di veto che paralizza l’Unione, usiamole e andiamo avanti. L’Ungheria e la Slovacchia non ci stanno? Mi dispiace molto, perché Budapest fa parte della nostra storia. Ma non può paralizzarci. Noi abbiamo il dovere di attivare la nostra fantasia istituzionale per affiancare alla Nato un coordinamento stretto di politica e di difesa europea».

Ma nello studio ovale della Casa Bianca si è disdetto l’atlantismo, come noi lo abbiamo conosciuto fin qui?

«È arduo rispondere. C’è chi ritiene che la prima prima parte della conversazione tra Trump e Zelensky sia stata costruttiva, c’è chi dice che si sia trattato di un agguato. Non oso azzardare un giudizio netto su una vicenda che solo il tempo definirà meglio nei suoi contorni. Però constato che, nel discorso sullo stato dell’Unione, Trump ha ammorbidito i toni, anche perché forse le sue precedenti parole hanno creato un certo disagio tra gli americani. La stessa rappresentazione un po’ vittimistica del tycoon, in base alla quale gli Stati Uniti sono taglieggiati dagli europei scrocconi, è una bugia priva di senso e alla lunga non sostenibile neanche in patria. Perché è vero che gli americani hanno perduto migliaia di ragazzi per difendere l’Europa, che ci hanno dato il piano Marshall, che ci hanno difeso con la Nato pagandone in gran parte i costi, ma è vero anche che l’Europa è il più grande mercato del mondo ampiamente colonizzato dagli americani. I conti non si fanno solo con la bilancia dei pagamenti. Penso alle centinaia di miliardi che partono dai risparmiatori europei per alimentare i mercati e le aziende americane. Noi concorriamo alla loro prosperità, e sarebbero guai per gli Stati Uniti se questa incomprensione spingesse l’Europa verso altri lidi».

Ma non crede che una cesura tra USA e Europa si sia già irrimediabilmente prodotta? Il bullismo istituzionale di Trump non è un’iconoclastia delle forme del tutto estranea alla storia delle relazioni diplomatiche tra capi di Stato? Di più, dire che Zelensky è l’aggressore, e non l’aggredito, non vuol dire accreditare la tesi, putiniana, che la guerra è stata scatenata dalla NATO col suo espansionismo?

«Concordo al cento per cento. Anche a volersi rassegnare alla fine delle buone maniere, dalla pace di Westfalia in poi il mondo ha conosciuto un rafforzamento della diplomazia e del multilateralismo che oggi viene drammaticamente messo in discussione. Ma c’è qualcosa che mi crea ancora maggior disagio, ed è il fatto che gli Stati Uniti abbiano sommato il loro voto a quello della Corea del Nord, del Venezuela, della Russia, dell’Iran e del Nicaragua, stati canaglia che sono distanti anni luce dalla civiltà americana. Temo che un simile ripiegamento prima o poi si paga. Questo rovesciamento del racconto del mondo si spiega con l’idea che la democrazia liberale non sia più in grado di gestire i processi di globalizzazione, e che oggi serva una democratura, un sistema dell’uomo forte. Per cui chi vince le elezioni comanda. Non ci sono contrappesi, che siano Parlamenti o Corti Costituzionali o giudici».

Lei teme che questa ideologia populista minerà le basi della democrazia americana?

«È un fenomeno molto forte, quasi travolgente, ma è tutto da dimostrare che i pesi e i contrappesi della società americana non le resistano. Spero che non riesca a mettere in discussione il limite del secondo mandato per Trump».

La sua età gioca contro, per fortuna. Ma come inciderà questo fenomeno sulla leadership di Giorgia Meloni? Fin qui la premier ha esibito il ruolo di alleata fedele, credendo di giovarsene, ma ora che Trump si è rivelato un fattore di destrutturazione questa vicinanza rischia di scottare?

«Intravedo nella minore loquacità di Meloni un segno di intelligenza. Da un lato non vuole e non può perdere il rapporto con Trump, dall’altro non può perdere il rapporto con l’Europa».

Se la polarità crescesse, non rischia di perderli tutti e due?

«Mah, voglio essere confidente, perché sono un europeista e un italiano, e mi augurio che Meloni non perda nessuno dei due rapporti. La fiducia mi dice che alla fine una ricomposizione dell’Occidente avverrà, forse non nella forma tradizionale che abbiamo fin qui conosciuto. Se mi sbagliassi, sarebbe drammatico per l’Italia, prima che per Meloni».

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