Cannes 2025, Eddington di Ari Aster è un grande pasticcio: scrittura confusa, regia mitomane. Urge bagno di umiltà
- Postato il 17 maggio 2025
- Cinema
- Di Il Fatto Quotidiano
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Di quel cinema americano para-indipendente (produce la glamourous A24), scoppiettante ma soprattutto “scopiazzante” (dai Coen…), extra-long perché deve starci tutto e anche di più (due ore e venticinque minuti), dallo sguardo cool perché di sguardo giovane (il regista ha 38 anni), social-politico e anti-Trump (il cinema USA è dem, ovvio) e soprattutto pasciuto di superstar (Joaquin Phoenix, Emma Stone, Pedro Pascal) così ci prendono a Cannes. Appunto.
L’attesissimo Eddington di Ari Aster risponde a tutto questo, nel peggior modo possibile. Il primo yankee in concorso sulla Croisette non è un bel vedere, e non basta la giovane età del suo cineasta a giustificarne l’esito (vedasi Sirat, la meraviglia diretta dal 43enne Oliver Laxe…), così come evidentemente non sono sufficienti i prestiti attoriali hollywoodiani allo sguardo indie di Aster per garantirne performance dorate. Del resto già si erano sodalizzati Phoenix e il cineasta newyorkese nel science-horror-fiction Beau ha paura (2023) sortendo un film di inenarrabile bruttezza e pretenziosità.
Certo, Eddington, questo suo quarto lungometraggio, vola un po’ più un alto, forse perché di ambizione è addirittura maggiore. Ma non siamo molto oltre le soglie del grand pastis, per dirlo alla francese. Un pasticcio onnicomprensivo ambientato nella profonda provincia USA – siamo nell’immaginaria Eddington del New Mexico, nei pressi di Albuquerque, resa mitica da Breaking Bad – sul finire del maggio 2020, ovvero in piena era Covid-19 (e soprattutto del primo Trump) ma anche all’indomani dell’omicidio di George Floyd che scatena le giuste e in molti casi furibonde manifestazioni del Black Lives Matter. Assembramenti vietati per legge che però lo sceriffo ruvido di pelle ma di buon cuore Joe Cross (Phoenix) prova a tollerare perché pure lui, asmatico, la mascherina proprio non la regge.
Il contrasto con il sindaco ispanico-americano Ted (Pascal) è aperto su tutti i fronti a partire dal tentativo di quest’ultimo di far rispettare il divieto mettendo in guardia contro i contagi. Sul fronte domestico, Joe ha una bella e stralunata moglie (Stone) e una suocera invadente di cui ben non si capisce né presenza né ruolo drammaturgico, almeno inizialmente. E mentre sullo sfondo c’è un progetto super-tecnologico-energetico per la città – che molti cittadini osteggiano – in primo piano viene posta la questione di presunto abuso sessuale di cui sarebbe stata vittima la consorte di Joe da adolescente che lo sceriffo attribuisce (e non si capisce perché) a Ted.
Mentre la sceneggiatura implode nella gloriosa confusione, la vicenda esplode di paranoie, ossessioni e fucilate, dove tutti sono contro tutti e il nostro “povero” eroe asmatico impazzisce autorizzandosi a gesti inconsulti, così da fornire al film un minimo di senso e attrattiva, dopo perpetrata noia.
Ironie a parte, Eddington afferisce a un cinema di “coeniana” affiliazione (con qualche accenno alla buffa polizia di Twin Peaks) laddove la commedia nera si mescola al western contemporaneo con spiccata denuncia politica e sociale. La critica contro la deriva valoriale statunitense è palese e si incarna soprattutto nel convitato di pietra Donald Trump, allora come oggi. Ma tutto questo, già si diceva, non giustifica purtroppo quel grande cinema a cui Ari Aster ambisce e di cui, va ammesso, potrebbe anche essere fautore al netto dei suoi buoni esordi, da Hereditary a Midsommer, ma questi erano horror puri, un genere che forse Aster dovrebbe riconsiderare come per sé elettivo.
Punta finora più bassa del concorso (siamo a un terzo dell’intera selezione) Eddington trova il suo maggior difetto nella scrittura confusa e di conseguenza in una regia mitomane incapace di andare a segno e informare un senso compiuto. Insomma il talento non basta, è auspicabile un bagno di focalizzata umiltà.
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