Brigitte Bardot, oltre l’icona: quando la libertà di una donna diventa specchio di un’epoca

  • Postato il 28 dicembre 2025
  • Attualità
  • Di Paese Italia Press
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di Francesco Mazzarella

Ci sono morti che arrivano come una notizia e restano come una domanda. Brigitte Bardot se n’è andata il 28 dicembre 2025, a 91 anni, e la comunicazione pubblica ha fatto ciò che fa sempre con le icone: ha iniziato a scolpire un’immagine definitiva.   Ma Bardot, se la si vuole davvero capire, non può essere ridotta a una fotografia. È stata un personaggio e una donna, e tra queste due figure c’è la distanza che spesso separa la libertà raccontata dalla libertà vissuta.

Perché Bardot non è solo cinema. È un capitolo del Novecento in cui il corpo femminile diventa, nello stesso gesto, terreno di emancipazione e territorio colonizzato dallo sguardo. È il paradosso di una “liberazione” che talvolta libera più lo spettatore che la persona. La sua fama nasce in un’Europa che si sta scrollando di dosso la morale del dopoguerra e che, davanti a quella presenza così fisica e così indocile, scopre di poter desiderare senza più chiedere scusa. Il punto è: chi paga il prezzo di quel desiderio, quando viene trasformato in diritto di commentare, invadere, possedere?

Prima di diventare “BB” è stata una ragazza cresciuta nella borghesia parigina, con la disciplina della danza classica addosso come una seconda pelle.   Il suo passaggio al cinema racconta molto dell’epoca: la donna scoperta come immagine prima ancora che come voce, celebrata come simbolo e poi costretta a inseguire quel simbolo per non esserne schiacciata. Quando l’immagine precede la persona, la persona viene continuamente interrogata per “coincidere” con ciò che gli altri si aspettano.

“E Dio creò la donna”, nel 1956, non fu soltanto un film: fu un detonatore culturale.   Bardot non entra in scena chiedendo permesso. Disturba l’ordine, sposta l’aria, accende un immaginario che fino a quel momento era tenuto a bada. Ma proprio lì inizia anche l’altra storia: quella del sistema – e spesso del pubblico – che trasforma la frattura in prodotto. La libertà, quando diventa poster, smette di essere libertà e diventa consumo.

Qui si annida la questione “personaggio-donna”. Bardot viene definita “simbolo della liberazione sessuale”, e per molti lo è stata davvero: perché ha reso visibile una femminilità che non era più solo ornamento, che poteva desiderare e scegliere. Ma nello stesso tempo il suo mito ha alimentato un meccanismo antico: la convinzione che il corpo di una donna famosa sia un bene comune, una superficie su cui ognuno può scrivere giudizi, battute, sentenze. Era libertà, sì, ma spesso attraversata dal pedaggio dell’oggettificazione: la libertà di essere guardata, non sempre la libertà di essere ascoltata.

C’è un elemento che sfugge quando si dice “sex symbol”: un sex symbol non è una persona, è un contratto sociale. La società decide che quel corpo rappresenterà un’idea di modernità, di peccato, di provocazione; e poi pretende coerenza, come se la vita dovesse adeguarsi alla narrazione. Bardot è stata incastrata dentro questo contratto: adorata quando confermava la fantasia, attaccata quando la smentiva. Da qui nasce anche la sua ambivalenza: icona femminista per alcuni, “oggetto” perfetto per altri. E quando una donna diventa “troppo”, la cultura trova sempre un modo per punirla: con il moralismo, con l’ironia, con il disprezzo mascherato da critica.

La sua filmografia, allora, vale più come onda che come elenco. Il disprezzoViva Maria!La verità: titoli diversi, epoche diverse, ma una domanda che torna sempre uguale. Che tipo di donna poteva essere “permessa” al cinema di quegli anni? Quanta libertà era reale e quanta era una recita richiesta dal mercato del desiderio?   Il cuore del problema non è che Bardot fosse desiderata – lo sono state molte attrici – ma che la sua energia, la sua indocilità, la sua libertà di essere “non addomesticata” venissero percepite come minaccia.

E quando la vita privata diventa tassa sulla fama, la persona inizia a sparire. Le ricostruzioni biografiche più attendibili ricordano momenti di sofferenza e tentativi di suicidio, legati anche alla pressione di un’esistenza continuamente esposta.   Non è un dettaglio morboso: è il lato umano di una storia che spesso è stata consumata come poster. È la prova che la notorietà non è una casa: è un clima. E se vivi troppo a lungo in quel clima, rischi di ammalarti dentro.

In questo senso, il ritiro dal cinema nel 1973, prima dei quarant’anni, appare oggi come un atto radicale di sovranità.   Non un capriccio, ma un “basta” detto con la vita intera: basta essere disponibile allo sguardo che consuma. È una scelta che spiazza perché mette a nudo una dipendenza collettiva: quanto ci serve che l’icona resti accessibile, sempre, per continuare a proiettarci sopra ciò che vogliamo?

Da quel punto, Bardot cambia pelle. Non più (solo) l’icona erotica del cinema, ma l’attivista animalista che prova a trasformare la fama in pressione politica e culturale. Nel 1986 fonda la Fondation Brigitte Bardot; nel 1992 lo Stato francese la riconosce d’utilità pubblica, certificando un progetto strutturato e duraturo.   La fondazione oggi dichiara un’azione internazionale ampia, con interventi in molti Paesi, campagne e iniziative per la tutela degli animali.   Anche qui, al centro, c’è una dinamica potente: dall’essere guardata al guardare; dal ricevere desiderio all’offrire cura.

L’attivismo di Bardot è stato tenace e spesso generoso: campagne contro la caccia alle foche, contro cacce e pratiche ritenute crudeli, contro il commercio di pellicce, lettere a capi di Stato, alleanze con mondi animalisti anche molto militanti.   È stata, nel bene e nel male, una donna di intensità: la stessa intensità che l’ha resa esplosiva sullo schermo l’ha portata a essere inflessibile fuori dallo schermo.

Eppure – e qui un approfondimento serio non può voltarsi dall’altra parte – la storia di Bardot non è una parabola “pulita”. La sua maturità è stata segnata anche da dichiarazioni su immigrazione e Islam che hanno generato indignazione e conseguenze giudiziarie, con più condanne e multe per incitamento all’odio razziale e alla discriminazione.   È facile cadere in due errori speculari: l’agiografia (“era solo libertà”) oppure la lapidazione (“era solo odio”). La realtà umana, invece, è più faticosa: una persona può compiere scelte luminose e pronunciare parole oscure, può difendere i fragili in un ambito e ferire in un altro. Non per assolvere o condannare: per capire.

Qui entra un tema che riguarda tutti noi, oggi: la responsabilità della parola. Bardot ha mostrato quanto una parola possa muovere coscienze e istituzioni quando parla di animali; e quanto una parola possa ferire quando parla di persone.   La potenza comunicativa non è mai neutra. Chi ha una voce pubblica – una star, un politico, un influencer, un giornalista – ha un dovere relazionale: perché la voce costruisce convivenza oppure la corrode.

Per questo Bardot, nel 2025, non è solo memoria. È un caso di studio sul rapporto tra immagine e identità, tra libertà e prezzo della libertà, tra personaggio e persona. È anche un ponte con il presente digitale: la macchina che l’ha divorata in forma gigantesca oggi esiste in forma quotidiana. Cambia il palco, non cambia la struttura. Ognuno può essere paparazzo, commentatore, giudice. Ognuno può trasformare una vita in un feed. E le donne, ancora oggi, pagano spesso un costo più alto: perché il giudizio sul corpo arriva prima dell’ascolto della voce.

Nel giorno della sua morte, le reazioni lo mostrano: c’è chi la saluta come leggenda del cinema e chi prova a usarla come bandiera identitaria.   È l’ultimo paradosso di Bardot: anche da assente continua a essere contesa. Ed è qui che possiamo scegliere: contesa o compresa. Perché la memoria, se non diventa relazione, resta soltanto rumore.

Sappiamo che lascia un marito e un figlio, e lascia una fondazione che continuerà un lavoro iniziato da lei.   Ma l’eredità più scomoda non è istituzionale: è culturale. È l’invito a non accontentarsi dell’immagine. A smettere di raccontare le donne come “fenomeni” e iniziare a raccontarle come persone: contraddittorie, vulnerabili, a volte luminose, a volte feroci, sempre più grandi di una definizione.

Brigitte Bardot, nel suo splendore e nelle sue ombre, ci consegna una verità che dovremmo tenere stretta: il modo in cui guardiamo una donna dice spesso più di noi che di lei. Se la guardiamo per consumarla, la tradiremo sempre. Se la guardiamo per comprenderla, forse impareremo qualcosa anche su noi stessi. E forse la libertà smetterà di essere una parola che brucia e tornerà a essere ciò che dovrebbe: una cura che rende umani.

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