Barocco aperto e primordiale: la riscoperta di Mario Papini e dei suoi studi vichiani
- Postato il 26 luglio 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Era quasi vent’anni fa. Con Francesco Valagussa attraversavamo per la prima volta l’iniziatica soglia di Port’Alba, sbucando in quella galleria di librerie e bouquiniste a ribalta dove, nei tre anni successivi, avrei dilapidato la “miglior parte” della mia esigua borsa di dottorato.
A un tratto Francesco spiccava dal domino dei libri imbustati in verticale un titolo mai sentito prima: Arbor humanae linguae, saggio su L’etimologico di G.B. Vico come chiave ermeneutica della storia del mondo, autore un certo Mario Papini, a me allora ignoto, di cui il Gussa, se ben ricordo impostato da Vincenzo Vitiello, ebbe a dire: “Mi han giurato che è un gran libro…”. Con mia malcelata invidia si aggiudicò la copia ma il caso volle che pochi banchetti più in là – fu certo la magia del luogo a ‘occasionarlo’ – io ne recuperassi una seconda e, assai ringalluzzito, me l’acchiappassi.
Ricordo di aver poi letto con stupefatta ammirazione per l’autore che, per qualità – e libertà – di pensiero e di scrittura, poco aveva a che spartire con le superfluissime cattedratiche compilazioni sull’argomento. Poi non avendo, ammetto, mai troppo insistito su percorsi vichiani, ho rimosso quel fortunato incontro, per me già classico senza bisogno di conferme. Ritenevo cioè scontato che chiunque affrontasse Scienza nuova e dintorni si avvalesse di quei preziosi attraversamenti. Così invece non era. Si trattava di gemme trascurate dai più – o almeno dai consessi della critica ufficiale, le solite conventiones ad escludendum, impegnate più a che altro ad allestire la ‘commedia senz’arte’ del riconoscimento dei reciproci ranghi, che non a far vivere le idee che i testi avverano.
Anni dopo, troppi, mi sorprese una telefonata di Alessandro Montefameglio, il quale, anch’egli seguendo piste vichiane, s’era imbattuto in Papini. «Ma chi, Mario?» / «Sì…». / «Ma non può essere… ho un suo libro dell’84!» / «E invece! Gli ho scritto e l’ho incontrato. Sono stato a trovarlo! Sta a Colle Val d’Elsa, vicino a San Gimignano». / «E? Che tipo è?» / «No, tu non hai idea… Devi assolutamente conoscerlo!». La farò breve: Alessandro avrebbe di lì a poco curato, in stretta collaborazione con Valagussa, che l’ha prefatto, il volume Conatività barocca / Conatività vichiana, edito da InSchibboleth, che raccoglie sedici saggi scritti da Mario Papini tra il 1984 e il 2005. Dunque Montefameglio, come un ispirato Poggio Bracciolini viareggino, ha letteralmente ritrovato e rimesso in circolo l’opera – impressionante per mole e perspicuitas – di Mario Papini. E non è merito trascurabile.
Ma vera gioia è stata conoscere quest’uomo che incarna tutte le sottigliezze, le ispirate stravaganze ma anche l’ironica levità di una ‘nobiltà dello spirito’ di cui si sta sempre più perdendo traccia e vive in un tempio di libri disposto con geometrica sapienza dove potete consultare babeliche sezioni bibliotecarie sulla cultura cinese antica o egizia, sulle grandi civiltà amerindie e asiatiche, sul mondo classico e mediterraneo preclassico, sulla storia dell’arte di ogni tempo e luogo, nonché, ça va sans dire, su tutte le principali letterature occidentali moderne, che Papini legge in originale, come accade del resto con gli autori greci e latini che ininterrottamente frequenta.
Ora, vi sarebbe infinitamente da dire su come Mario acceda a queste fonti, perché, nell’ambito unitario della sua opera, lo faccia e dando luogo a quale movimento costruttivo. E si tratterebbe poi, determinato il fulcro della sua speculazione, di mostrare come si collochi al centro della costellazione dei saggi vichiani raccolti in Conatività barocca, istradando ciascuno sulla propria orbita metafisica e alimentandola concettualmente. Operazione, questa, che qui non possiamo purtroppo assolvere. Solo una minima traccia, allora, che inviti alla lettura di questo libro essenziale.
In un saggio che fa letteralmente da armatura all’intero volume, Vervm & factvm. L’armario metafisico vichiano, Papini, in poche battute, spiega con chiarezza come vada pensata la relazione, per lui come per Vico centrale, tra metafisica, linguaggio e “‘antichissima sapienza’”:
“Le lingue, come le civiltà, seguono grandi rotazioni, per cui si deve congetturare che – assai prima della nostra, o di quella di Platone e di Aristotele – siano esistite età di “antichissima sapienza”. Qui non si ha un semplice riscontro di fatto, né una pura quadratura di logica, ma un’instaurazione o prospezione altamente speculativa, in base alla quale le lingue sono in grado di sviluppare dalle loro primordiali radici un orizzonte metafisico che, una volta raggiunto un apice, declina e si perde. Possono solo salvarsi frammenti e rottami di questo sapiente lessico, accidentalmente assorbiti da nuovi linguaggi in germinazione (p. 221)”.
È a partire da quest’evidenza che va inteso il tentativo di Mario Papini, il quale, nel suo slancio più radicale, non consiste nel farsi interprete di autori o dottrine passate, ma nel far germinare un nuovo linguaggio poematico, cioè a un tempo filosofico e poetico, capace di riattivare more geometrico, ossia col giusto ritmo e con coerenti ‘misure’, la forza cosmica e costituente che ha visitato la multiforme sapienza dei primordi.
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