Bambini e smartphone, ciò che inquieta sono i danni sul linguaggio

  • Postato il 19 settembre 2024
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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di Carmelo Zaccaria

Proibire l’uso del cellulare agli adolescenti, come chiedono a gran voce gli esperti e buona parte della società civile, non sarà per niente facile e questo nonostante l’area del disagio che colpisce i nostri ragazzi e che rivela fenomeni crescenti di ansia e di depressione. Tutti gli indicatori di salute mentale tendono a peggiorare, ma ciò che preoccupa è il cronico impoverimento del loro linguaggio.

La tecnologia digitale, unica fonte di ispirazione dei loro sogni e delle loro ambizioni, allontana la parola, rendendola vacua, insignificante. La sua funzione non è più quella di avvicinare il prossimo, ma escluderlo. Il bambino assorbe e viene travolto dal lessico oscuro e patinato del web, che non gli insegna nulla che possa servirgli nel suo percorso di crescita, soprattutto perché non gli arriva attraverso la mediazione e la complicità di una persona di fiducia che lo istruisce, lo guida. Gli spiega. Resta solo a destreggiarsi, ad interpretare un vocabolario ed un modo di esprimersi “adulto”, per lui inadatto, disturbante.

Il complesso sistema di comunicazione che circola dentro al web non protegge il bambino dalle insidie del mondo, non gli chiarisce i motivi che lo rendono inquieto. E’ un linguaggio suadente che acchiappa, seduce, irretisce, ma che rimbalza nella sua mente ancora acerba, vulnerabile, senza lasciargli alcuna abilità cognitiva. Quel linguaggio è stato sviluppato per ben altri scopi, non è finalizzato a formarlo, ad educarlo, ma piuttosto per circuire individui, per mercificare sensazioni, ammansire stati d’animo, non certo a fargli cogliere la magnificenza del mondo.

Per questo si sente frustrato, preso alla sprovvista, mai all’altezza, alle prese con una terminologia vacua, sincopata, fatta di abbreviazioni ed esclamazioni, punti di sospensione, emoticon, termini amputati e acronimi; tutto tranne una frase compiuta, riflessiva, un lessico chiaro e comprensibile. Finisce per essere schiacciato da un frasario che non ha mai sentito, per niente familiare, tremendamente difficile da padroneggiare, inadeguato a fargli cogliere le sfumature della vita, a scuotere la sua fantasia, a chiarire i terribili dubbi che circolano nel proprio animo, a stimolarlo nella formazione della sua identità.

Il bambino cerca ad ogni modo di adattarsi alle logiche del digitale per compiacere al desiderio dei grandi, che pensano colpevolmente che l’utilizzo intensivo del mezzo tecnologico serva a farlo diventare sveglio, brillante, moderno. Tuttavia, nella pratica egocentrica dell’online, così ipertrofica e chiassosa, le parole perdono la loro centralità, c’è spazio solo per se stessi, resta marginale l’interesse verso i discorsi degli altri e questa mancanza di ascolto, questa patologica disattenzione, condiziona la sua capacità di apprendimento, restando focalizzato sulle sue fumose e appaganti certezze. Ed è ovvio che in assenza di parole gli sarà difficile prendere il largo.

Se nel web il bambino resta orfano di parole, nel mondo fiabesco egli scopre il loro primato, pronti a spiegargli i dettagli del mondo, a renderlo esperto di vita. Il vocabolario semplice e accattivante, sempre vivo delle fiabe, stimola la sua immaginazione, intercetta le sue angosce, ma soprattutto, tracciando la differenza tra il bene e il male, gli fornisce una coscienza morale.

Nelle fiabe ogni parola conserva la sua sacralità, la stessa solennità che si percepisce in un rapporto diretto, quasi osmotico che si crea tra chi parla e chi ascolta, dove la comunicazione è singola, intima, senza distrazioni. Nell’uso dello smartphone la prossimità scompare, la relazione da unica e succosa si trasforma in una molteplicità insipida, “molti parlano a molti”, attraverso un linguaggio certamente levigato e perfetto, senza sbavature, ma privo di suspense, sostanzialmente spento.

Con la progressiva perdita del linguaggio, con l’esproprio della parola, gli adolescenti perdono il contatto con la realtà, disegnandosene una finta, sempre più solitaria e irrilevante.

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Il Fatto Quotidiano

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