Baciamo i ranocchi
- Postato il 3 dicembre 2025
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- Di Il Vostro Giornale
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“È necessario che una donna lasci un segno di sé, della propria anima, ad un uomo perché, a fare l’amore siamo brave tutte!” è quanto dichiara Alda Merini. Sulla conclusione della sua affermazione mi consento di applicare una saggia epokè, anche perché non ho avuto né l’occasione, né la fortuna, né l’onere di poter fare l’amore con tutte le donne. A parte l’approccio ironico, credo che sarebbe possibile rovesciare al maschile, come pure, immagino, a qualsiasi lettera dell’alfabeto che categorizza i più diversi orientamenti sessuali, anche la prima parte del pensiero della Merini: se non lasci un segno di te, della tua anima, al tuo partner, hai fatto esercizio fisico, assolutamente non l’amore e, a mio avviso, nemmeno del buon sesso. Ma voglio utilizzare la prospettiva suggerita dalla poetessa, per riflettere sul concetto di sessualità nella sua stretta correlazione con i termini, socio politici e culturali, di potere e controllo, accostando alle sue parole quelle di Paulo Coelho: “Il sesso, il dolore e l’amore sono esperienze ai limiti dell’uomo. E solo quelli che conoscono queste frontiere conoscono la vita; il resto è solamente una perdita di tempo; ripetere le stesse cose, invecchiare e morire senza sapere realmente quello che stiamo facendo qui.” In questa cornice poetica e psicologica proviamo a collocare una delle più note fiabe riproposte dai fratelli Grimm nel XIX secolo ma che, ancora una volta, è espressione di un mondo popolare ben più antico. La fiaba in questione è nota con il titolo di Il re ranocchio o Enrico di ferro ma è possibile rintracciarne suggestioni addirittura nel Satyricon di Petronio (qui fuit rana, nunc est rex) seppure con i dovuti distinguo. È nota anche una versione scozzese, un po’ più drastica nel momento della metamorfosi, che conserva il nocciolo concettuale della vicenda: la trasformazione di un rospo in un bel principe. In breve la vicenda riguarda una giovane e, ovviamente, bella e, pensa un po’, aspirante Principessa che, giocando, ha smarrito una sfera d’oro che le viene recuperata da un “brutto e bitorzoluto rospo” il quale, come compenso per il suo aiuto, chiede alla fanciulla di baciarlo. La fanciulla accetta, ottiene la preziosa biglia ma poi si rifiuta di mantenere la parola, costringendo il rospo a una sorta di ossessivo corteggiamento al termine del quale la fanciulla concede il bacio che, potere delle favole, cancella l’incantesimo e riporta il rospo alle sue reali sembianze, quelle di un giovane e, altrettanto ovviamente, bello e, ma pensa il caso, Principe Azzurro.
Ora, lasciando a margine “l’ultima riga delle fiabe”, proviamo a leggerela nell’ottica proposta: quali sono le radici culturali che ispirano la narrazione di questa e di numerose altre fiabe? Le nonne, la sera, nei pressi del camino, inventavano trame pedagogiche per educare le giovani generazioni. Nessun progetto consapevole, fondamentalmente si trattava di un passaggio di consegne valoriali considerate immutabili nel tempo, una sorta di “fine della storia” dalle connotazioni religiose o hegeliano marxiste, ma torniamo all’oggetto del nostro ragionare. Il potere, nelle sue forme arcaiche più accessibili, quella del ruolo di comando (Re o Principe che sia) e quella magico religiosa. L’incantesimo della magia nera trasforma il Signore in un rospo al quale sarà consentito di riacquisire le forme originarie, se liberato dalla magia bianca dell’amore nella sua forma ingenua e, questo è sottointeso, immacolata. L’occasione è offerta da una questione piuttosto mercantilistica, il do ut des relativo alla sfera d’oro e del compenso erotico che, ca va sans dire, riporta alla più antica professione del mondo e al suo imbellettamento consacrato tra corteggiamento, castità e sacramenti. Il più evidente messaggio, seppure non esplicitato, è che, se una fanciulla desidera diventare Principessa, dovrà accettare di assecondare le strane voglie del rospo; l’altra parte del messaggio è che il rospo ha bisogno del candore adolescenziale per redimersi e conquistare il suo ruolo che gli spetta per nascita. Tutta la vicenda, comunque, ruota intorno al concetto di metamorfosi: la fanciulla candida e ingenua si trasforma in una donna piuttosto disponibile a performance insolite, lo sgradevole rospo diviene un meraviglioso Principe.
Nell’analisi suggerita dall’ottica junghiana e dal concetto, in essa fondativo, di archetipo collettivo, la richiesta sessuale del rospo si scontra con la verginità della fanciulla che pure è, evidentemente, curiosa dell’incontro con l’altro sesso; certo, può far paura, ma quanto eccitante. Meno male che il Principe, oltre che ricco e potente, è anche bello e giovane, si tratta, evidentemente, di uno dei vantaggi delle fiabe! Ma se per Jung la rana-rospo è l’archetipo della trasformazione, non è lecito chiedersi come mai non abbiamo fiabe nelle quali un giovane verginello si trova a dover baciare la rana nella speranza di vederla trasformarsi in una meravigliosa Principessa? In una ricostruzione distopica della vicenda potremmo attualizzarla fino a comprendere che davvero la fiaba è utilizzabile in versione double face, credo che, infatti, se decriptiassimo il simbolo anfibio, potremmo comprendere che il rapporto tra due individui, dei quali uno è “bello e buono” e l’altro è “sgradevole e bramoso”, possa indicare che sarà opportuno non baciare il rospo, o la rana, perchè questi rimarranno esattamente quello che sono. Insomma, la fiaba, nel suo più o meno esplicito messaggio, si scontra con la relatà che troppo spesso è ben più dolorosa. Quella che potremmo definire la “sindrome della crocerossina” affligge un gran numero di donne che, il più delle volte inconsapevolmente, si sentono investite del ruolo eponimo o di quello di mamma anche nei confronti del partner, incaricate, di conseguenza, del compito di educare, redimere e salvare il rospacchioso amato. Si tratta di verificare statisticamente in quanti casi donne disposte ad affrontare una simile impresa si siano, nel tempo e spesso troppo tardi, dovute arrendere all’evidenza: il rospo rimane tale. Ma la domanda ulteriore diviene: se il rospo ti appare tale e tale si presenta, con questo mettiamo in un angolo la situazione riassunta in “ma prima non era così”, per quale motivo non lo hai evitato? Che diritto hai di affermare di esserti innamorata di ciò che hai saputo, o creduto, o voluto vedere oltre l’aspetto effettivo?
Mi sembra pleonastico precisare che con l’espressione “aspetto” non si intenda quello meramente fisico; la questione rimane insoluta a livello etico e deontologico: con quale diritto ci si accosta a una persona con l’intento di trasformarla in un’altra? Oltretutto attendendosi da questa gratitudine e amore? Sia chiaro che la favola, forse ancor più oggi, la si può applicare anche a ruoli invertiti, lo stesso errore lo commetterebbe anche chi pretendesse di interpretare il ruolo del “buon papà” in un rapporto di coppia; per chi conosce l’opera di Svevo, un po’ quello che il “saggio maturo e generoso” Emilio Brentani intendeva realizzare con la “biricchina e disponibile” Angelina. Allo stesso modo, forse ancor più contorto psicologicamente, può accadere di accostarsi a una persona riconoscendo in essa la possibilità di riceverne aiuto per divenire ciò che si reputa opportuno essere in futuro. Che l’obiettivo sia etico o pratico o, ancor peggio, opportunistico, non inficia la sostanza dell’argomentare. La questione è piuttosto complessa e sfaccettata, impossibile affrontarla nella sua multiforme problematicità, quel che è certo è che l’errore sta nel manico, nella prospettiva iniziale di un simile rapporto, inevitabile il fallimento conclusivo. Nel caso in cui il rospo, o la rana, si trasformassero, che mediocre relazione potrebbe scaturire da un rapporto squilibrato, magari basato sulla gratitudine, che non va confusa con l’amore? Si tratterebbe di una sorta di coppia zoppa, nella quale uno dei partner sarebbe stampella, tanto utile per un tratto quanto ingombrante una volta non più necessaria. Nel caso dovremmo riconoscere alla stampella il diritto di essere amata per sempre per la missione svolta? Difficile riconoscere il valore di qualcosa che non ci occorre, ma l’amore non è basato su “cosa ricevo” quanto sulla gioia di donare, ecco perchè il genitore potrà essere amato dalla prole ma non il partner genitorizzato.
Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì. Perchè non provare a consentirsi un “altro” punto di vista? Senza nessuna pretesa di sistematicità, ma con la massima onestà intellettuale, il curatore, che da sempre ricerca la libertà di pensiero, ogni settimana propone al lettore, partendo da frasi di autori e filosofi, “tracce per itinerari alternativi”. Per quanto sia possibile a chiunque, in quanto figlio del proprio pensiero. Clicca qui per leggere tutti gli articoli.