Bach? Il primo programmatore informatico (inconsapevole). Dal contrappunto ai “qubit”: la musica classica ispira la scienza e perfino l’AI. Ecco come

  • Postato il 5 novembre 2025
  • Scienza
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Johann Sebastian Bach non conosceva la parola “quantistico”, ma nelle sue fughe si respira già la logica della sovrapposizione: più voci che si inseguono, convivono, si intrecciano senza mai annullarsi. Un equilibrio perfetto che rimane sospeso fino alla risoluzione finale. È sorprendente scoprire come questo principio musicale risuoni nella scienza contemporanea. Nella meccanica quantistica, infatti, una particella può trovarsi in più stati allo stesso tempo, e un qubit, l’unità di informazione elementare dei computer quantistici, può essere contemporaneamente 0 e 1. Solo l’osservazione “decide” il risultato, come l’accordo che chiude una fuga.

Si pensi poi all’entanglement (in italiano “intreccio”), la misteriosa correlazione che lega particelle subatomiche anche a grandi distanze, facendole vibrare come se fossero una sola. Un mistero che Albert Einstein chiamava “spettrale azione a distanza”. Chiunque abbia suonato in un quartetto d’archi sa che qualcosa di simile accade anche in musica: non basta seguire lo spartito, bisogna respirare insieme, percepire i movimenti degli altri, mantenere un’intesa invisibile. È una sintonia che nasce dal silenzio condiviso, dalla capacità di cogliere sfumature impercettibili. In fondo, il quartetto e l’entanglement parlano lo stesso linguaggio: coordinazione a distanza senza fili apparenti. E ancora: in orchestra il direttore alza la bacchetta e dirige decine di strumenti, facendo in modo che nessuno entri in ritardo o copra la voce altrui. È il “processore” umano che orchestra un sistema complesso. Qualcosa di analogo accade nei computer quantistici: l’algoritmo che li governa deve mantenere la coerenza dei qubit, impedendo che il fragile equilibrio si spezzi. Non una semplice sequenza binaria, come in un computer classico, ma una sinfonia di stati sovrapposti da coordinare con precisione assoluta.

Ora, la convergenza tra musica e scienza non è solo metaforica: esiste anche nei laboratori. La tecnica della sonificazione, metodo già noto da alcuni decenni, traduce dati complessi in suoni, rendendo udibili pattern (schemi, modelli) nascosti. È stata usata per ascoltare i segnali delle stelle, e oggi permette di “sentire” le oscillazioni di una molecola o i legami di entanglement. In alcuni esperimenti i ricercatori hanno scoperto che l’orecchio umano riconosce schemi che sfuggono agli occhi di fronte a un grafico. In altre parole, dunque, la musica diventa uno strumento per comprendere meglio la realtà. Già nel 2006 Roberto Barbera, ricercatore dell’Università di Catania, trasformò i dati sismici di due vulcani attivi, l’Etna in Sicilia e il Tungurahua in Ecuador, in sonate per pianoforte: grazie a un computer superavanzato, lo scienziato italiano riuscì a convertire le vibrazioni vulcaniche in frequenze udibili chiaramente da orecchio umano. E non per incidere un nuovo disco, ma per trovare un sistema semplice di allerta per eventuali eruzioni. O ancora, un gruppo di ricercatori del Massachusetts Institute of Technology, guidati da Markus Buehler, è riuscito a dare un suono al Coronavirus. Si tratta di una composizione della durata di quasi due ore dal titolo Contrappunto virale della proteina Spike del coronavirus, che si può ascoltare su soundcloud.com digitando il nome di Markus Buehler. È stato assegnato un suono alla proteina del patogeno e alle sue catene di amminoacidi, che sono venti. Ad ognuna, poi, è stata abbinata una nota. L’evoluzione sonora segue quella della struttura molecolare di Spike (la proteina cattiva che si aggancia alle cellule umane), grazie a un programma di intelligenza artificiale come la sonificazione, appunto.

Non stupisce dunque che la musica classica si presti a dialogare anche con l’intelligenza artificiale. Algoritmi di machine learning sono già in grado di generare composizioni nello stile di Mozart o Chopin. OpenAI, Google e altre aziende hanno sviluppato sistemi che imparano dai capolavori del passato e ne ricreano la grammatica, producendo brani che ingannano perfino gli esperti. Certo, manca ancora l’elemento umano: l’imperfezione che rende unica una frase musicale, la tensione emotiva che nasce dall’interpretazione. Eppure, il fatto stesso che un algoritmo possa produrre un corale “alla Bach” dimostra quanto la sua musica sia vicina a un codice, a un linguaggio logico. Non a caso, alcuni musicologi definiscono Bach “il più grande coder (programmatore) inconsapevole della storia”.

L’intelligenza artificiale, però, non si limita a comporre. In molti laboratori si sperimenta la possibilità di usarla come interprete: sistemi che “leggono” partiture e ne restituiscono un’esecuzione espressiva, variando il tempo e l’intensità come farebbe un musicista in carne ed ossa. Nel 2024 un gruppo di ricerca del Mit e dell’Università di Cambridge ha addestrato una rete neurale a dirigere un’orchestra virtuale, reagendo in tempo reale alle scelte dei musicisti. Il risultato è stato definito “emozionante e inquietante”: un’IA che non solo imita, ma ascolta.

In parallelo, l’IA entra anche nei laboratori scientifici. Alcuni fisici stanno utilizzando modelli generativi per sonificare dati quantistici in tempo reale: fluttuazioni di particelle trasformate in melodie che cambiano insieme all’esperimento. O in altri casi, la musica stessa diventa un linguaggio per spiegare concetti scientifici complessi a un pubblico non specialista. Le università di Oxford e Stanford, ad esempio, hanno avviato progetti di divulgazione in cui quartetti d’archi “eseguono” i fenomeni quantistici, traducendo formule in armonie.

C’è anche una dimensione neuroscientifica da tenere in considerazione: la musica attiva aree del cervello legate alla memoria, all’attenzione e alla percezione del tempo. Alcuni ricercatori ipotizzano che i meccanismi cognitivi dell’ascolto musicale possano ispirare nuovi modelli di elaborazione per i computer quantistici, che non lavorano in sequenza ma in simultaneità. Come un’orchestra che tiene insieme decine di strumenti, il cervello (e forse un giorno anche l’IA) si rivela maestro nel gestire la complessità senza ridurla. Si pensi agli spazi di Hilbert, ambienti matematici multidimensionali della meccanica quantistica: sono difficili da visualizzare. Ma se li pensiamo come partiture infinite, con linee di probabilità che si intrecciano come voci musicali, diventano più familiari. Alcuni fisici hanno già tradotto funzioni d’onda in melodie, dimostrando che l’orecchio può cogliere regolarità impercettibili in forma grafica. È un’idea che apre un futuro affascinante: la possibilità che musica e scienza si sostengano a vicenda nella comprensione dell’invisibile.

Ora, il legame tra musica e scienza non è poi così sorprendente, se si pensa che molti fisici di spicco erano anche musicisti. Einstein suonava il violino e diceva che “la vita senza musica sarebbe inconcepibile”; Max Planck, padre della teoria dei quanti, era un pianista appassionato. Per loro, la musica non era un passatempo, ma un altro linguaggio per indagare l’armonia dell’universo. Forse, proprio questa duplice sensibilità ha reso possibili alcune delle intuizioni più rivoluzionarie della storia della scienza. La tecnologia non nasce mai dal nulla. Si nutre di immaginari, linguaggi, intuizioni. E la musica classica, con il suo equilibrio tra rigore matematico ed emozione, si rivela ancora oggi un serbatoio inesauribile per la scienza. Forse, quando i computer quantistici diventeranno operativi su larga scala, ci accorgeremo che il loro modo di elaborare non è poi così diverso da quello di una sinfonia: un intreccio di voci sovrapposte, coordinate da un invisibile direttore. E chissà, magari nel cuore di quelle macchine straordinarie riconosceremo, in filigrana, l’eco di un preludio bachiano che aveva già intuito tutto, tre secoli fa.

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Foto in alto | Nell’immagine – creata dall’AI di Google, Gemini – un (poco somigliante) Bach davanti al monitor di un pc

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