Architettura e spazio urbano in Italia. Che fine hanno fatto le periferie? 

  • Postato il 17 agosto 2025
  • Architettura
  • Di Artribune
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Era il 2012 quando l’Anci organizzò, a Torino, un convegno dedicato alle Smart Cities. Chi ha vissuto quegli anni con interesse ricorderà senza dubbio quell’entusiasmo, forse un po’ ingenuo e immotivato, che il termine smart city portava con sé. Griglie energetiche, quartieri intelligenti, riqualificazione urbana delle città, sviluppo culturale, riqualificazione degli spazi in disuso, riduzione del suolo costruito, spazi verdi, fondi europei, sensori, IoT, città digitali.
Tante tante idee, di cui però ora è difficile trovare, se non in rari casi, delle testimonianze materiali. 

L’entusiasmo per le Smart Cities

Erano gli anni in cui Renzo Piano parlava di “rammendo e rigenerazione urbana”, evidenziando quanto fosse importante costruire sul costruito, ponendo l’attenzione sulle periferie urbane non solo come aggregati residenziali funzionali, ma come veri e propri spazi urbani, capaci cioè di innescare quel fenomeno che è noto come urbanità: la coesistenza e lo sviluppo di connessioni sociali.
La grande attenzione verso le città era palpabile: il processo di urbanizzazione era evidente, e al termine del primo decennio del duemila, la maggioranza degli abitanti del pianeta terra viveva in città. O meglio, viveva nelle periferie delle città. Con tutti gli interrogativi e le sfide che il superamento della soglia psicologica del 50% implicava.


L’architettura delle città italiane fuori dai centri storici

Ci sono stati progetti esemplari, certo. Ci sono state rinascite mirabili. Eppure, la maggior parte delle nostre città, al di fuori dei centri storici, è ancora dominata da un’architettura senza grazia estetica o funzionale, figlia della stagione dello sviluppo urbano della seconda metà del Novecento.
Una condizione che nemmeno la sbornia edificabile del Super bonus ha minimamente intaccato. Tra crediti, finanziamenti, responsabilità civili e penali, condizioni tecniche, sicurezza sismica, pannelli solari e riqualificazione energetica, nulla ha minimamente coinvolto un concetto di estetica dell’abitare.

La ricostruzione e la “brutta architettura”

I motivi sono chiari: troppo costoso ricostruire. Soprattutto in una condizione economica in cui la maggior parte delle persone a fatica riesce a manutenere ciò che ha ricevuto in eredità. Troppo difficile ricostruire secondo le normative vigenti. Troppo complicato coinvolgere reattivamente tutte le figure professionali coinvolte nel processo di creazione edile. 
Si tratta di condizioni concrete e del tutto inattaccabili, ma che in ogni caso conducono ad una condizione che in qualche modo dovrebbe imporre a chi si occupa di cultura una riflessione attenta: le nostre città sono brutte. Sono brutti i palazzi. Sono brutte le strade. Sono brutti gli sparuti spazi verdi troppo spesso trascurati.

E le periferie?

Mentre i nostri centri storici sono un gioiello dell’umanità, chiunque viva al di fuori delle aree antiche dei nostri centri urbani si ritrova in quartieri residenziali spesso senza identità, frequentemente senza grazia architettonica. Una scarsa grazia che non viene affatto mitigata dalla presenza delle grandi “cattedrali nel deserto” che aveva anticipato di qualche anno le smart-cities, e che in sintesi professava l’importanza di grandi musei, archi stellati nelle periferie.

La Street Art e le periferie

Ripercorrendo gli ultimi quindici anni, l’unica vera rivoluzione estetica delle periferie è stata canonizzazione della Street-art, che talvolta con opere di grande valore artistico,  talaltra con interventi fondati sulla partecipazione diretta degli abitanti dei quartieri interessati, hanno trasformato i grigi ed uniformi strati di cemento in momenti di riflessione e di condivisione di quartiere.
Una condizione tuttavia effimera, che soltanto in determinati casi blasonati (qualcuno ha detto Banksy?) si ritiene meritevole di tutela, e che richiede allo stesso tempo una manutenzione per la quale non sempre si dispone delle necessarie risorse (sia tecniche che economiche).

Banksy a Bristol, Crediti Hollis Morgan, view
Banksy a Bristol, Crediti Hollis Morgan, view

La periferia nell’immaginario collettivo

Le periferie, nel frattempo, hanno conosciuto dei momenti di grande celebrità: dalle serie TV alle rinascite artistiche, dal senso di comunità alla creazione di nuove importanti costruzioni, ma sono poche le riflessioni che immaginano il futuro delle nostre città.
Non solo delle grandi periferie che sono state il sinonimo del degrado urbano a cavallo tra il Novecento e il nostro secolo, ma anche dei quartieri residenziali, o delle piccole città che rappresentano in ogni caso una parte importante del nostro paesaggio costruito.
I piccoli interventi di cura del nostro tessuto urbano dovrebbero iniziare a considerare l’estetica come un valore assoluto da rispettare, includendo nell’estetica di un luogo anche la capacità di creare spazi aggregativi, e che sappia coniugare una sempre maggiore esigenza di capienza con la necessità di vivere in luoghi di cui le persone si sentano orgogliose.

Reimmaginare le periferie

Non possiamo vivere tutti nei parchi delle meraviglie che sono i centri storici delle nostre città d’arte, né tutti possono permettersi delle ville indipendenti, ed è giusto che sia così.
Se però vogliamo che sempre più persone vivano in centri urbani di medio-grandi dimensioni, forse sarebbe il caso di re-immaginare questi spazi, sia nelle proprie funzioni estetiche che nelle proprie funzioni di socialità.
Non possiamo semplicemente accettare che il paesaggio costruito debba restare tale fino a generazionale ricostruzione, con l’auspicio che le condizioni siano migliori in futuro. Se non possiamo agire concretamente nel presente, quantomeno proviamo ad immaginare quali condizioni possano migliorare quelle che in fondo sono le dimensioni vitali delle città, quelle in cui ci sono ancora i cittadini, i negozi di vicinato, i mercati rionali. Quelli in cui le persone salutano quando entrano al bar. Altrimenti non creiamo cittadini, ma solo abitanti di sub-unità catastali.

Stefano Monti

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Autore
Artribune

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