Arabia Saudita, la metropolitana di Riad costruita sfruttando i lavoratori migranti

  • Postato il 24 novembre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Decenni di sfruttamento del lavoro migrante sono alla base di uno dei progetti infrastrutturali di cui l’Arabia Saudita va maggiormente fiera: presentata come la “spina dorsale” del sistema di trasporti pubblici della capitale, la metropolitana di Riad – recentemente inaugurata – è stata costruita da imprese nazionali e internazionali che, sotto la supervisione delle autorità locali, si sono servite di manodopera straniera sottopagata e costretta a lavorare in condizioni di grande pericolo e con temperature estreme.

Quest’accusa è contenuta in un rapporto di Amnesty International che, come spesso accade, mostra il “lato B” della scintillante cartolina che il principe ereditario Mohamed bin Salman esibisce, ottenendo grandi applausi e congratulazioni, al mondo intero (da ultimo al presidente Usa Trump).

Lo sfruttamento, come raccontato da 38 lavoratori provenienti da India, Bangladesh e Nepal, è iniziato ancora prima di arrivare in Arabia Saudita: attraverso un sistema di agenzie di collocamento e loro subappalti, queste persone hanno dovuto pagare tra 700 e 3500 dollari, indebitandosi a volte per sempre o in altri casi rinunciando a pagare le rette scolastiche per i figli, per poter lavorare alla costruzione della metropolitana di Riad. Sulla carta, le leggi vietano che si paghi nei paesi di origine per lavorare in Arabia Saudita ma evidentemente dalla carta non si è passati all’applicazione della norma.

Suman, lavoratore del Nepal, ha dovuto impegnare i gioielli d’oro della moglie. Ha pagato l’equivalente di 700 dollari a un’agenzia locale di collocamento, più altri 1400 tra visite mediche, documenti vari e spese di viaggio, per ritrovarsi a ricevere un salario mensile di 266 dollari. Questo è equivalso a due dollari all’ora nei migliori dei casi, a un dollaro in altri. Molti lavoratori hanno dichiarato che, pur non essendo obbligati a fare gli straordinari, non hanno potuto farne a meno per compensare i miseri compensi.

Altre persone hanno raccontato cosa ha significato lavorare ore ed ore con una temperatura che d’estate superava i 40 gradi: il divieto governativo di lavorare dalle 12 alle 15 si è rivelato del tutto inadeguato. Questa è la testimonianza di Nabin, nepalese:

“Quando lavoravo con quell’afa, mi sentivo all’inferno. Mi chiedevo: ‘Come ho potuto finire qui? Ho fatto qualcosa di cui Dio mi sta punendo?’. Poi mi rispondevo che in Nepal non trovavo lavoro, che dovevo mantenere la mia famiglia e che dovevo continuare a soffrire”.

Janak, proveniente dall’India, ha raccontato di aver ricevuto pressioni dai subappaltatori affinché lavorasse anche con temperature estreme:

“Dicevamo al supervisore: ‘Guarda, non possiamo lavorare con questo caldo’ e lui: ‘Non m’interessa, andate avanti’. Siamo persone povere, che potevano ribattere?”

Molti lavoratori si sono visti sequestrare il passaporto e sono stati costretti a vivere in alloggi insalubri e sovraffollati.

Ricapitolando, c’è un problema di mancata (e conveniente) supervisione da parte delle autorità saudite. Ma c’è anche un evidente problema di responsabilità da parte di imprese multinazionali che hanno deciso di prendere parte a progetti infrastrutturali in Arabia Saudita non potendo non sapere cosa sarebbe successo ai lavoratori assunti.

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Il Fatto Quotidiano

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