Antonello Montante sceglie il carcere modello di Bollate per costituirsi dopo ordine di esecuzione dei giudici
- Postato il 10 settembre 2025
- Giustizia
- Di Il Fatto Quotidiano
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Ha scelto il carcere modello di Bollate (Milano) Antonello Montante, ex leader di Confindustria Sicilia condannato per corruzione. La Procura generale di Caltanissetta ha messo in esecuzione la sentenza d’appello senza attendere il ricalcolo della pena disposto dalla Corte di Cassazione che aveva annullato la decisione di secondo grado imponendo un nuovo giudizio limitatamente, però, al ricalcolo della condanna. Il processo che dovrà essere celebrato stabilirà infatti esclusivamente l’entità della pena che non potrà essere comunque inferiore a 4 anni e 5 mesi. Montante, a cui l’esecutività della sentenza è stata notificata, ha scelto di costituirsi nel carcere milanese. All’imprenditore era stato contestato l’aver creato una rete di informatori e l’aver dato vita a una attività di dossieraggio per condizionare la vita politica siciliana.
L’inchiesta
Montante era finito indagato in un’inchiesta per mafia nel 2015, quando era al vertice del suo potere. Rispettato leader degli industriali siciliani, considerato simbolo della ribellione degli imprenditori contro il racket dei clan, era stato appena designato come componente del cda dell’Agenzia per i beni confiscati alle mafie. Tre anni dopo era finito agli arresti con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. Dopo aver scelto l’abbreviato, in primo grado Montante era stato condannato a 14 anni di carcere, ridotti a 8 in appello, quando era caduta l’accusa di violenza privata. Secondo l’accusa, avrebbe compiuto una attività di dossieraggio per colpire gli avversari, creando una rete di potere che puntava a condizionare la politica regionale.
Nelle motivazioni, depositate oltre 500 giorni dopo la sentenza, i giudici d’Appello scrivevano: “Dietro la coltre fumose della locuzione ‘sistema’, tanto spesso utilizzata anche in questo giudizio, nonostante sia più appropriata alla sintesi giornalistica che non all’analisi dei fatti tipici propria della giurisdizione, si perdono i percorsi che conducono ai più qualificati appoggi dei settori politici, istituzionali ed economici che hanno reso Montante una figura strategica con un ruolo di fatto e informale non classificabile nelle ordinarie e più trasparenti categorie della politica, dell’economia e delle istituzioni”. Secondo i giudici del processo di secondo grado, l’ex presidente di Confindustria “raccoglieva informazioni e le custodiva riservandosene l’uso” e “ciò era noto nella sua cerchia e tra le persone a lui vicine, l’uso che ne avrebbe potuto fare era chiaro”. E ancora, scriveva le corte, “plurime fonti riferiscono che egli si vantava di avere a disposizione dossier, pronti all’uso”.
La distruzione dei documenti
Il giorno in cui venne arrestato, il 14 maggio del 2018, Montante si barricò nel suo appartamento. Prima che le forze dell’ordine riuscissero a entrare, distrusse oltre 20 pen drive e decine di documenti. Probabilmente una parte del suo archivio. I giudici, infatti, sottolineano come l’imprenditore avesse “ripetutamente accesso” alle “banche dati Sdi per procedere ad interrogazioni non autorizzate su imprenditori, politici, amministratori, professionisti, editori, giornalisti, collaboratori di giustizia, persone sospettate di appartenere alla criminalità organizzata, un magistrato, i suoi familiari e la sua autovettura”. Nel 2021 l’ex paladino dell’antimafia si fece interrogare per quasi per quattro udienze durante il suo processo: negò tutti gli episodi e gli addebiti da capo dell’associazione a delinquere con cui avrebbe commesso i reati di corruzione e di accesso abusivo ai sistemi informatici. “No, assolutamente no”, aveva ripetuto per diverse volte. Alla fine dell’udienza, a porte chiuse, il suo legale disse: “Montante ha fatto presente che tutti i presidenti di Confindustria facevano richieste di informazioni a Diego Di Simone e poi lui faceva un resoconto sulla base di quello che aveva trovato ma la sua fonte di informazioni non la diceva a nessuno”.
Adesso bisognerà capire come influirà la sentenza della Suprema corte sul maxi processo in corso, tra mille rallentamenti, a Caltanissetta. Alla sbarra c’erano 30 imputati, ma già in quattro sono usciti dal dibattimento per intervenuta prescrizione: tra questi anche il governatore della Sicilia, Renato Schifani. Tra gli imputati c’è anche il suo predecessore Rosario Crocetta e altri politici, compresa l’ex assessora regionale Linda Vancheri. Con il verdetto degli ermellini la contestazione di associazione a delinquere, la più pesante è caduta. Al sedicente paladino dell’antimafia quindi è rimasta l’accusa di corruzione e da ieri ha iniziato a scontare la pena.
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