Anche le donne detenute sono vittime di stereotipi e spesso vengono abbandonate
- Postato il 8 marzo 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Vivere in un carcere è difficile per chiunque. Spesso tuttavia, per una serie di motivi, è più difficile per una donna che per un uomo. In questa giornata internazionale della donna il mio pensiero vuole andare a tutte le donne del mondo che si trovano dentro una prigione. In molti paesi accade che ci si trovino a seguito di comportamenti non offensivi, dettati dalla necessità della sopravvivenza personale e dei figli.
In Italia le donne attualmente detenute sono poco più di 2.700. Su una popolazione reclusa che ha superato le 62.000 unità, si tratta del 4,4%. Una piccola percentuale, una minoranza nella minoranza, una categoria ancor più trascurata di quella delle persone detenute nel loro complesso. È paradossale che la maggior parte dei problemi che vivono le donne in carcere dipenda dalla loro scarsa vocazione criminale, dal fatto che sono poche e che commettono reati generalmente meno gravi di quelli commessi dagli uomini. Problemi anche molto concreti, primo tra tutti quelli legati alla loro distribuzione nelle carceri.
In Italia abbiamo oggi solamente tre istituti di pena interamente femminili, a Roma, a Venezia e a Trani. Fino a qualche tempo fa si contava anche il carcere femminile di Pozzuoli, chiuso prima della scorsa estate a seguito del terremoto. Questi tre istituti recludono tuttavia meno di un quinto delle donne detenute in Italia. La grande maggioranza di loro vive infatti in sezioni femminili ospitate all’interno di carceri a grande prevalenza maschile.
È giusto che sia così. Chiudere queste sezioni e accorparle tra di loro non potrebbe costituire una via praticabile: significherebbe allontanare le donne dai loro affetti, dalle loro famiglie, dai loro figli, che avrebbero inevitabilmente difficoltà ad andare a far loro visita durante i colloqui consentiti. Colloqui che costituiscono il momento più atteso in assoluto da ogni persona detenuta. Accade dunque che le sezioni femminili si ritrovino a ospitare poche decine di donne, alle volte poche unità. E accade con frequenza che le attenzioni degli operatori e le risorse destinate dall’istituto vadano a concentrarsi verso la sua parte più numerosa, ovvero quella maschile, lasciando le donne in uno stato di abbandono e di ozio forzato.
Accade che per le donne non si organizzino classi scolastiche, non si organizzino corsi di formazione, non ci sia lavoro, non ci siano attività culturali o sportive. Sarebbe molto facile risolvere questo problema, che è senz’altro tra i principali che le donne detenute si trovano a vivere. Basterebbe immaginare classi scolastiche o corsi di formazione misti tra uomini e donne, come quelli che tutti noi frequentiamo nel mondo libero. Ma il carcere è un’istituzione impermeabile a qualsiasi novità e spaventata dalla normalità. Uomini e donne non devono incontrarsi.
Il carcere è anche un’istituzione piena di stereotipi. Le poche attività organizzate nelle carceri e nelle sezioni femminili sono spesso quelle considerate tipicamente femminili, dal taglio e cucito al corso di cucina. Il periodo di detenzione, ancor più di quanto accada per gli uomini, non riesce a fornire gli strumenti per una vera reintegrazione sociale alla fine della pena. Una pena tendenzialmente breve, proprio in ragione dello scarso spessore criminale che caratterizza le donne detenute, al termine della quale accade con frequenza che la donna non ritrovi i legami che aveva costruito all’esterno, primo tra tutti quello con un eventuale partner. La donna che entra in carcere accade spesso che venga stigmatizzata come colei che non ha risposto al proprio ruolo sociale e famigliare, e dunque abbandonata.
La norma del disegno di legge governativo sulla sicurezza pendente in parlamento che non esclude il differimento della pena nei confronti di donne incinte o con figli fino a un anno di età andrà a inserirsi in questo quadro. In essa vi sono tutti gli ingredienti della degenerazione giuridica e culturale: la creazione di un nemico inesistente (le donne che si procurerebbero gravidanze continue per farla franca), il pugno di ferro e l’intolleranza zero verso piccoli reati di strada (il borseggio), il carcere sbandierato come unica prospettiva punitiva (perfino il codice Rocco è indicato come permissivista), la falsa retorica della certezza della pena che mancherebbe e va ripristinata (il differimento di qualche mese dell’esecuzione non significa assenza di pena ma pena rinviata), l’odiosa stigmatizzazione di una categoria etnica (le donne rom).
Questo è solo un accenno ai maggiori problemi che spesso una donna si trova ad affrontare quando incrocia il sistema della giustizia penale e del carcere rispetto ad un uomo. Potrei continuare. Mi fermo qui, ma invito tutte noi a non dimentircarci delle nostre compagne detenute oggi che celebriamo la festa della donna.
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