Afghanistan ieri, Palestina oggi: il doppio standard dell’Occidente che dice addio alla coerenza

  • Postato il 25 agosto 2025
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di Claudio Carli

Dopo l’11 settembre 2001 l’Occidente intervenne in Afghanistan con una cornice giuridica e politica chiara: l’Aumf del Congresso Usa autorizzò l’uso della forza contro i responsabili degli attentati; il Consiglio di Sicurezza riconobbe il diritto di autodifesa (ris. 1368) e, poche settimane dopo, autorizzò la missione Isaf per stabilizzare Kabul e sostenere le nuove istituzioni. La narrativa era quella della “guerra al terrorismo” intrecciata al nation building: combattere Al-Qaeda, rimuovere i Talebani e favorire la nascita di uno Stato funzionale e, se possibile, democratico.

Venticinque anni dopo, in Palestina il quadro è opposto. La guerra a Gaza, scatenata dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, ha prodotto accuse gravissime a carico di Israele: la Corte internazionale di giustizia non ha accertato un genocidio, ma ha ritenuto plausibile il rischio di violazioni della Convenzione e imposto più volte misure provvisorie per prevenire atti vietati e garantire aiuti umanitari. È, in sostanza, un allarme massimo sul piano del diritto internazionale.

Anche la diplomazia Onu ha lanciato segnali: nel marzo 2024 il Consiglio di Sicurezza ha chiesto un cessate il fuoco immediato (ris. 2728), con gli Stati Uniti che si sono astenuti. Il testo, tuttavia, non ha prodotto un’inversione di rotta sul terreno.

Il confronto mette in luce tre asimmetrie.

1. Cornice legale. In Afghanistan l’intervento armato fu legittimato da atti formali (Aumf, risoluzioni Onu) e incardinato in una missione multinazionale. A Gaza, la risposta occidentale è rimasta perlopiù indiretta: pressioni diplomatiche, aiuti umanitari, qualche stop simbolico alle forniture belliche. Washington ha sospeso una spedizione di bombe pesanti a maggio 2024 per l’operazione su Rafah, ma il flusso complessivo di armamenti non si è interrotto.

2. Architettura della responsabilità. In Afghanistan l’obiettivo dichiarato era costruire istituzioni condivise con la comunità internazionale (per quanto poi fallimentari). Nel dossier Palestina la giustizia internazionale corre a inseguire: il Procuratore della Corte penale internazionale ha chiesto mandati d’arresto per leader di Hamas e per il premier israeliano, segno di una accountability che procede a posteriori e tra forti resistenze politiche.

3. Coerenza politica. Allora l’Occidente ritenne necessario usare la forza per “esportare sicurezza” e, almeno nelle intenzioni, “favorire la democrazia”. Oggi, di fronte a una crisi che divora civili e infrastrutture, la parola d’ordine è containment: evitare l’escalation regionale, preservare alleanze, gestire l’emergenza umanitaria. È una realpolitik che paga dividendi tattici ma erode credibilità: gli appelli all’ordine liberale suonano vuoti quando le misure della Corte internazionale restano lettera morta e i cessate il fuoco non si consolidano.

Questo non assolve i fallimenti di ieri: l’Afghanistan si è chiuso con un ritiro caotico e il ritorno dei Talebani, dimostrando i limiti del cambiamento imposto dall’esterno. Ma la lezione afghana rende più stridente l’inerzia odierna. Se il 2001 inaugurò l’idea che la sicurezza richiedesse interventismo, Gaza rivela la fatica dell’Occidente a coniugare vincoli morali e interessi strategici.

Uscire dal vicolo cieco significa tre cose: dare forza cogente alle decisioni Onu; subordinare le forniture militari al rispetto del diritto internazionale umanitario; investire in un percorso politico realistico — sicurezza per Israele, diritti e statualità per i palestinesi — con garanzie multilaterali. Senza questa coerenza, l’Occidente rischia di restare prigioniero di due narrazioni inconciliabili: la democrazia da esportare e quella che non si riesce più a difendere.

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