A Venezia cade nel vuoto l’appello per una presa di posizione su Gaza. Ma il cinema è anche etica, non solo estetica

  • Postato il 29 agosto 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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L’appello di 1.500 artisti e cineasti alla Mostra del Cinema di Venezia per una chiara presa di posizione contro il massacro di Gaza, contro i suoi perpetratori e per chiare prese di posizione della Mostra “sulla pulizia etnica, sull’apartheid, sull’occupazione illegale dei territori palestinesi, sul colonialismo e su tutti i crimini contro l’umanità commessi da Israele per decenni e non solo dal 7 ottobre” è rimasto finora inascoltato.

Di fronte alla manifestazione prevista per sabato a Venezia la direzione della Mostra cerca di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, affettando sensibilità umanitaria ma evitando accuratamente di schierarsi in senso politico. Il direttore Alberto Barbera ha puntualizzato che estromettere, come qualcuno ha chiesto, chi utilizza la propria esposizione nel cinema per supportare il governo israeliano o il suo esercito sarebbe censura. Gli sfugge forse che esistono anche criteri etici, oltre che estetici, per selezionare i partecipanti a una Mostra: un attore o regista che sostenessero la correttezza della scelta russa di invadere l’Ucraina, la liceità della pedofilia o la superiorità della razza ariana non sarebbero giustamente ammessi.

Barbera dovrebbe riflettere su un altro problema: può il cinema essere all’altezza delle sue potenzialità e della sua storia se si riduce a tran-tran amorale e impolitico?

Il cinema e l’arte, sta ripetendo in questi giorni il direttore della Mostra, sono arena di confronto e di dialogo, dunque non devono pretendere dagli artisti questa o quella presa di posizione. L’attività culturale è uno “degli strumenti più efficaci”, ha detto, per fermare la “conflittualità” del tempo presente. Su una linea anche più estrema Pietrangelo Buttafuoco, presidente della Biennale: quest’ultima, ha affermato, “mai potrà allineare [sic] un atteggiamento coercitivo nei confronti della libertà di espressione” e dovrà invece “far incontrare i popoli anche tra loro nemici, farli incontrare in una direzione molto più alta [sic] che è quella dell’espressione della bellezza”.

Pur chiosando che “non c’è niente di più triste che speculare su qualcosa che reclama innanzitutto pudore” mostra che proprio il pudore è il suo problema: anche ammesso e non concesso che alla Mostra di Venezia si incontrino i “popoli”, in che modo chi è oggi imprigionato sotto i bombardamenti e il fuoco delle armi automatiche potrebbe trovare un senso in tali frasi di circostanza?

Siamo abituati da decenni a questa retorica, e dovremmo invece finalmente chiedere: come, di preciso, il solo fatto di mostrare opere a un pubblico è utile a fermare i massacri? La Biennale aveva preso giustamente posizione pubblica contro l’invasione russa dell’Ucraina a soli tre giorni dall’inizio della “operazione speciale” putiniana nel 2022. Poiché Israele, contrariamente alla Russia, è alleato dei paesi Nato e meglio inserito nel mondo del cinema, valgono doppi standard.

Sono tutti bravi a dire “quanto sta avvenendo” e “bambini”, meno a entrare nel merito: non si sentono nominare, ai piani alti della manifestazione veneziana: Israele, Netanyahu e il governo israeliano, né i pertinenti concetti di colonizzazione, occupazione e apartheid.

Da tempo gran parte delle arti e delle scienze sono sprofondate in una melassa retorica dove ciascuno si sente assolto da ogni responsabilità diretta e politica per ciò che accade nel mondo, e dove si pensa che termini come “dialogo” e “confronto” possano essere branditi come lasciapassare per un parnaso dove calcare i red carpet facendo soldi (spesso grazie al lavoro di migliaia di lavoratori precari e sottopagati) è un buon modo per sentirsi assolti dalle responsabilità storiche del proprio tempo, comodamente “delegate” ai politici di professione.

La forma attuale del disimpegno etico è pretendere il bastone e la carota del non fare né dire nulla di preciso e concreto, e al tempo stesso considerarsi estranei a quanto accade. Le frasi fatte e di circostanza, invece, vengono ascoltate da milioni di persone dentro e fuori l’Europa, e proprio l’ipocrisia di cui trasuda la parte privilegiata della società mondiale renderà più difficile un dialogo su questa terra, lasciando intendere che unico viatico per farsi ascoltare sarà l’uso della forza. Tale e tanta è la responsabilità di chi oggi pensa di potersi astrarre dalle proprie responsabilità pubbliche.

Ciò che assegna alle scienze e alle arti la nota aura di attività almeno potenzialmente nobili è invece proprio la loro eventuale capacità di mostrarsi libere, anche di testimoniare insofferenza alla sottomissione della propria creatività al monotono imperativo conformista delle frasi fatte di fronte alla morte sistematica e all’oppressione; poiché morte e oppressione sono condizioni che impediscono la creazione e le arti. Non è sufficiente mettere in programma un film sulla Palestina ma è necessario battersi, anzitutto pronunciando i nomi dei responsabili e pretendendo un’azione collettiva contro di essi, perché i giovani palestinesi possano vivere e fare cinema (il cinema palestinese esiste e resiste, ma a mantenerlo in vita sono i superstiti a una decennale opera di colonizzazione).

Ciò che produce i migliori “effetti” contro l’occupazione militare e la pulizia etnica che Barbera chiama “conflittualità” non è la riproduzione di spazi dove tutte le posizioni, anche le più retrive, hanno uguale dignità. Al contrario: le scienze e le arti danno sempre il meglio quando sono trascinate dalla necessità di collidere con la mediocrità, spezzare l’ordinario, superare la frase fatta o il luogo comune e contrapporsi alla ripetizione e all’esistente, magari a partire proprio dalla loro insopportabile ipocrisia.

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Il Fatto Quotidiano

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