A un anno dal rapporto Draghi gli unici progressi sono sulla spesa in armi. Lui: “Il confine tra economia e sicurezza è sempre più sfumato”

  • Postato il 16 settembre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Un anno dopo la presentazione del suo Rapporto per il rilancio della competitività europea, Mario Draghi torna a Bruxelles per una “conferenza di alto livello” con Ursula von der Leyen sui progressi fatti nel recepire le sue indicazioni. I toni non sono quelli celebrativi probabilmente auspicati dalla presidente della Commissione. “Il nostro modello di crescita sta svanendo”, attacca l’ex governatore di Bankitalia, presidente della Bce e da ultimo premier italiano. “Le vulnerabilità stanno aumentando, non c’è un percorso chiaro per finanziare gli investimenti di cui abbiamo bisogno” e questa “inazione” minaccia “non solo la nostra competitività ma la nostra stessa sovranità“. L’unico fronte su cui negli ultimi 12 mesi si è davvero mosso qualcosa è senza dubbio quello della spesa per la difesa, con il piano “Readiness 2030” che prevede prestiti europei ad hoc e offre flessibilità nei conti pubblici ai Paesi che potenziano le spese militari. Non abbastanza per Draghi, che a un certo punto del suo intervento scandisce una frase chiave: “Il confine tra economia e sicurezza è sempre più sfumato“. Insomma: il grande riarmo deve diventare un pilastro della traballante crescita del Vecchio continente.

La dipendenza dagli Usa per la difesa, argomenta l’ex numero uno dell’Eurotower, è del resto una delle ragioni per cui “abbiamo dovuto accettare un accordo commerciale in gran parte alle condizioni americane”: sonora bocciatura dell’intesa con Donald Trump sui dazi al 15% sulle merci Ue sottoscritta dalla stessa von der Leyen. Serve fare di più e più in fretta. Perché “la spesa per la difesa sta aumentando rapidamente”, ma “questi impegni si aggiungono a esigenze di finanziamento già enormi”. Gli 800 miliardi di investimenti annui pubblici e privati che nel rapporto del 2024, basandosi su stime della Bce, aveva giudicato indispensabili per salvare il modello di sviluppo europeo sono nel frattempo aumentati del 50% salendo a 1.200 di cui 510 pubblici, “poiché la difesa è finanziata principalmente con fondi pubblici“.

Sono passati meno di 15 anni, ma sembrano remotissimi i tempi in cui lo stesso uomo predicava il consolidamento fiscale attraverso il taglio della spesa pubblica, riforme del lavoro all’insegna della flessibilità e riduzione degli stipendi nella pa, ricette che sono costate all’Eurozona una recessione e poi stagnazione di lungo periodo che hanno affossato anche i salari privati e ridotto il perimetro del welfare. Una stagione di cui dopo la pandemia e soprattutto dopo l’invasione russa dell’Ucraina non c’è più traccia nelle parole di chi ne è stato protagonista, ma che non può certo dirsi superata visti i paletti del nuovo Patto di stabilità con i limiti alla crescita della spesa primaria e percorsi di aggiustamento legati a rigidi limiti numerici. Regole ragionieristiche che, in un corto circuito tafazziano, promettono di restringere lo spazio di quegli stessi investimenti senza i quali, fa sapere il “nuovo” Draghi, la Ue non ha futuro.

È il “nuovo” Draghi che parla quando dice che la Ue è caduta in “due trappole: sforzi nazionali non coordinati o cieca fiducia che le forze di mercato costruiranno nuovi settori”. La prima “non potrà mai garantire la scala necessaria” e “la seconda è impossibile, quando altri distorcono i mercati e alterano il campo di gioco” per cui serve il soccorso del pubblico soprattutto “nei punti di strozzatura chiave”. In prima fila ovviamente la difesa, accanto a “industria pesante e tecnologie che plasmeranno il futuro”, a partire dall’intelligenza artificiale.

Della difesa si è detto: il rapporto Draghi chiedeva di “rafforzare la capacità industriale per la difesa e lo spazio” perché “la spesa pubblica per la difesa degli Stati membri dell’UE è insufficiente nell’attuale contesto geopolitico”. Sulla capacità industriale siamo alle prime battute. Ma Bruxelles ha rapidamente messo a punto, tra il resto, una nuova clausola di salvaguardia del Patto di stabilità e creato lo strumento Safe, 150 miliardi di prestiti comuni per difesa missilistica, droni, cybersicurezza. In parallelo la Banca europea per gli investimenti ha ampliato i suoi interventi al settore militare. Quest’anno tutti i Paesi dell’Ue membri della Nato raggiungeranno la soglia del 2% del Pil per la spesa in difesa come da richieste di Washington. Il tutto con pochi scrupoli riguardo al prezzo politico da pagare, alle conseguenze sulla disponibilità di risorse per le politiche sociali e per i settori produttivi e le infrastrutture civili, alla contraddizione rispetto agli obiettivi climatici (stando a uno studio recente, ogni 100 miliardi di dollari aggiuntivi in spesa militare portano con sé 32 milioni di tonnellate di Co2 disperse in atmosfera).

Sugli altri fronti che Draghi aveva indicato come cruciali per non soccombere alla concorrenza cinese e statunitense invece si arranca, tra lentezze procedurali e veti incrociati. I “piani d’azione” messi in campo dalla presidente dell’esecutivo europeo durante il suo secondo mandato sono libri dei sogni, dice tra le righe l’ex numero uno dell’Eurotower: bene “la diagnosi” e le “priorità chiare”, ma poi si “trovano scuse” per giustificare una “lentezza” che delude i cittadini e ne aumenta la frustrazione. “Abbiamo bisogno di date e risultati concreti”. Invece i pacchetti per la competitività e la semplificazione mirati a ridurre del 25% gli oneri burocratici entro la fine della legislatura sono ancora lontani dall’approvazione. Solo InvestEU è in fase di negoziato. Il resto è al palo, bloccato dalle divisioni tra Popolari e Socialisti.

Sulla frontiera tecnologica, ci sono piani per la costruzione di almeno cinque gigafactory per l’intelligenza artificiale ma i concorrenti restano lontanissimi: “Gli Stati Uniti hanno prodotto 40 large foundation models lo scorso anno, la Cina 15 e l’UE solo 3”. E l’AI Act, la nuova legge europea sul tema, è una “fonte di incertezza”. Tanto che per Draghi l’attuazione della seconda fase, quella sulla regolazione dei sistemi ad alto rischio come ospedali, trasporti, energia, infrastrutture critiche e sicurezza, “dovrebbe essere sospesa finché non comprendiamo meglio gli svantaggi“. L’energia? Il Clean Industrial Deal e il Piano d’Azione per l’Energia Accessibile non risolvono “le ragioni strutturali per cui l’energia in Europa è così costosa”. L’emblema dell’impasse è però il settore automobilistico: dal 2035 è previsto lo stop alla vendita di auto a combustione, ma il circolo virtuoso che avrebbe dovuto stimolare investimenti nelle infrastrutture di ricarica, ampliare il mercato interno e reso i modelli elettrici più economici non si è materializzato. E oggi gli obiettivi fissati dalla Commissione, sentenzia Draghi, “si basano su ipotesi che non sono più valide”.

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