A Gaza l’Occidente tradisce se stesso: la distruzione della memoria diventerà insicurezza cronica

  • Postato il 23 giugno 2025
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di Silvia D’Autilia

Era il 1949 quando Theodor Adorno dichiarava che “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”. Con questa provocazione, foriera di un immediato e ampio dibattito culturale, intendeva screditare le potenzialità espressive e comunicative dell’uomo rispetto all’orrore dell’Olocausto: il linguaggio non ne era all’altezza, nemmeno quello delicato ed elegante della poesia appunto. Adorno fissava così il perimetro della tolleranza cognitiva: una tragedia immane come quella dei campi di concentramento nazisti non poteva più convivere con le energie intellettuali con le quali siamo soliti a rapportarci agli avvenimenti della realtà per rielaborarli e raccontarli a parole.

Collateralmente all’affermazione di Adorno, il secondo dopoguerra è stato caratterizzato, com’è noto, da un lungo travaglio culturale per fare i conti con i fatti e domandarsi, tramite fiumi di indignazione, come siano potuti accadere. Il testo Se questo è un uomo di Primo Levi vale come esempio su tutti. Sono seguiti i processi agli imputati delle SS, i dibattiti sulle responsabilità e sulla banalità del male; sono arrivati i film, i premi cinematografici per raccontare quegli orrori e persino l’istituzione di una Giornata della Memoria ad hoc per celebrare quelle morti nel segno del “mai più”. Mai più disumanità, mai più violenza, mai più omertà. Il tutto ovviamente nell’affrancante cornice della posteriorità, quando i fatti sono asettici, ormai innocui e senza conseguenze sulle opinioni.

E veniamo all’oggi: la vittima si è trasformata in carnefice. In una progressiva escalation di occupazioni, sfratti e vessazioni che durano ormai da decenni (consigliatissima la visione del documentario pluripremiato No other land a questo proposito), fino alle stragi dell’ultimo anno e mezzo, Gaza è diventato un cimitero. E mentre l’Occidente ha come massimo impegno quello di scegliere con quale sostantivo meglio definire questa crudeltà (vietato parlare di genocidio per non urtare le sensibilità degli attuali oppressori o toccare certi nervi scoperti giornalistici), su questa sospensione decisionale sono stati uccisi, in poco più di un anno e mezzo, 50.000 civili, di cui 20.000 bambini, per non parlare di feriti e amputati o delle umilianti condizioni di sopravvivenza a cui sono condannati più di 2 milioni di palestinesi.

Ma oltre al merito, il problema è anche nel metodo: vale a dire le modalità con cui si sono compiuti questi massacri. Chi in fila per ricevere da mangiare, chi negli ospedali, chi ancora nelle incubatrici a poche ore dalla nascita, chi durante la sua attività professionale di giornalista, scrittore, reporter, medico, infermiere, soccorritore, chi pensava di trovare riparo nella sua casa, chi a scuola, chi, semplicemente per strada. In ogni caso, ferocemente. Allora d’accordo, non utilizziamo il termine genocidio, ma sia consentito di utilizzare contemporaneamente insieme tutti i suoi sinonimi, proprio a denuncia della reiterata crudeltà storica, come non si fosse mai verificata prima: e quindi parliamo di sterminio-distruzione-annientamento del popolo palestinese. Voi che vivete sicuri/ Nelle vostre tiepide case/ Voi che trovate tornando a sera/ Il cibo caldo e visi amici: / considerate se questo è un uomo/ che lavora nel fango/ che non conosce pace/ che lotta per mezzo pane/ che muore per un sì o per un no (…)

Forse un giorno – auguriamoci prestissimo – questa guerra finirà, ma la ferita psicopatologica dell’Occidente no, non passerà. L’autotradimento della propria storia e l’aver calpestato così spavaldamente la sua memoria lo tormenterà per sempre: la nevrosi si trasformerà in insicurezza cronica. Un nuovo stato di natura si delineerà. Dopo la svalutazione dei trattati, delle basilari regole di guerra e del diritto internazionale, l’altro non sarà che un costante potenziale nemico. Homo homini lupus. Perciò, o si risaneranno questi traumi, o rimarremo per sempre orfani di capisaldi valoriali, di etiche fondative inderogabili. O presenteremo le colpe o questa ferita psichica non troverà pace.

Fa sempre amaramente sorridere, del resto, sentire con frequenza ormai incalzante le notizie sui disagi psicologici in costante crescita, soprattutto tra i giovanissimi. Come si trattasse di un fenomeno a sé. Avulso e scollato dalla realtà. E senza collegare minimamente questi malesseri profondi al mondo circostante, all’ombra dei suoi orrori ingravescenti. Se è vero che viviamo in un’epoca a scorrimento continuo di dati, informazioni e notizie, è però altrettanto vero che la coscienza non è un muro di gomma: tutto quello che incontra prima o poi, consciamente o inconsciamente, somaticamente o psicologicamente, recupera e dovrà rielaborare. E per quanto distaccati, disinteressati o disinformati si possa essere, nel principio di realtà odierno è contemplabile che una madre, durante il suo servizio sul posto di lavoro ospedaliero, veda arrivare sulle barelle 9 figli uccisi dei suoi 10 totali. Se questo è un uomo, a proposito. Anzi. Se questo è un bimbo, come suggerisce il premio Pulitzer Chris Hedges.

Caro Adorno, se dopo Auschwitz, dunque, era una barbarie scrivere versi e il linguaggio non era lontanamente all’altezza di rendere l’idea della tragedia, al momento siamo nuovamente così impotenti, esterrefatti e pieni di dolore per cui, nostro malgrado, solo a questa parola di denuncia ci possiamo aggrappare.

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Il Fatto Quotidiano

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