A Forlì torna il Festival Crisalide: teatro, danza, musica e filosofia
- Postato il 9 agosto 2025
- Arti Performative
- Di Artribune
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Torna a Forlì il Crisalide Festival, il festival di teatro, danza, musica, filosofia, organizzato dalla compagnia forlivese Masque teatro, con la direzione artistica di Lorenzo Bazzocchi ed Eleonora Sedioli. Per questa 32esima edizione, aperta fino all’8 novembre, sono più di dieci i debutti, una ventina le compagnie ospiti, e molti i ritorni, perché Crisalide accompagna i progetti, li segue nel tempo.
Sul format ogni anno s’innestano novità e digressioni. Se infatti la programmazione autunnale andrà in scena al Teatro Felix Guattarì di Forlì, sarà il Giardino di Gualdo a Meldola, la cornice alla programmazione estiva, dal 22 al 24 agosto. Anche il concept ogni anno è una lama che affonda con rigore e lucidità nella frontiera che divide rappresentazione e realtà: il titolo/tema del programma 2025 è Sensibile, Dicibile, un invito ad accorgersi dell’altro e a seguirne i segnali. Ne abbiamo parlato con Lorenzo Bazzocchi ed Eleonora Sedioli.

L’intervista ai direttori artistici di Crisalide Festival, Lorenzo Bazzocchi ed Eleonora Sedioli
Il concept di quest’anno è “Condividere il destino dell’alterità: ecco cosa ci rimane”. Entro quali limiti della visione e della parola avete tracciato il programma, quali le accondiscendenze al tangibile e al raccontabile?
Si procede per analogie, a volte per rebus. Sensibile, dicibile, come tutti i temi della Crisalide di oggi e di quelle passate, getta un’ancora e delinea un recinto di studi e riflessioni all’interno del quale ci si prepara per meglio accogliere gli ospiti e le loro creazioni. In realtà, la contingenza ci sopraffà e lancia i suoi forti tentacoli per disarmarci. Il risultato è che quest’ancora non ha impedito la nostra deriva che ci ha visti approdare ad una, non del tutto dissimile, polarità. La dicotomia “Verità e Compassione” è così emersa da un labirinto inizialmente inestricabile, per poi risolversi nella sua luce più chiara, in quel “ Condividere il destino dell’alterità” che sta a significare, ora più che mai, della necessità di porsi nelle condizioni per cogliere nell’altrui procedere quelle significazioni che seppur distanti né possano chiarire l’intendimento. Sensibile, dicibile non è certo, quindi, strumento per operare scelte quanto quello di indicare che l’universo dei sensibili e dei dicibili, delle figure e dei discorsi, delle cose e delle parole, insieme non rappresentano altro che l’Uno dell’arte.
Gli appuntamenti estivi di Crisalide Festival e l’opera di Bazzocchi e Sedioli
Da dove nasce l’idea delle tre giornate agostane nel giardino di Gualdo?
Dalla casa. Ci si tuffa sulla casa lasciando la sottile scia asfaltata che si stacca dalla provinciale in direzione delle foreste casentinesi. Costruita sulle zolle alluvionali del fiume Bidente, è l’avamposto sul corso d’acqua che, abbandonata la diga di Ridracoli, si insinua nel territorio romagnolo fino a diventare Ronco in prossimità della città di Forlì. Se si varca la soglia della staccionata e ci si volta indietro, i campi di stoppie e gli aceri delle colline sovrastanti si ammutoliscono e lasciano filtrare il colore oscuro dei luoghi che abbiamo lasciato. Perché la strada da cui veniamo nasce dal luogo che accoglie il nostro arrovellarsi: costruito sulle fatiscenti strutture di una filanda della seta, reso notturno dalla necessità di convivere nella purezza della luce e nella sua assenza, lo spazio, nel tempo, è cresciuto come un organismo a sé stante, disgiunto dalla città che l’accoglie, navicella aliena arenata chissà dove nell’universo sconosciuto. Non si era mai manifestata in noi l’idea che per fare teatro si potesse abbandonare quella luminosa oscurità. Ci sono voluti trent’anni e quella casa sperduta nei campi e prossima al fiume per ridestare in noi il desiderio struggente di non appartenere a nulla se non all’aria e alla terra, e poi all’acqua. È questo che abbiamo scoperto come forse solo gli esploratori che per primi giunsero alle sorgenti del Nilo ebbero a trovare: l’origine e poi subito dopo il suo fantasma.
Come l’hanno vissuto gli artisti?
Abbiamo visto aggirarsi attorno a noi gli uomini e le donne che fanno del teatro la loro vita; li abbiamo visti con pesanti cesti di stoffe sulle spalle lasciare la casa e dirigersi verso il boschetto di noci e lì costruire la loro nuova caverna, li abbiamo colti fuoriuscire all’improvviso e all’impazzata dai rovi per balzare su spettatori-testimoni ignari ma da subito coscienti di appartenere a qualcosa di mai visto, abbiamo temuto per loro quando si inabissavano nei vortici del fiume, li abbiamo inseguiti, con la compassione di chi desidera condividere il destino dell’altro, sulla loro zattera scomparire verso valle.
Danzare sulle zolle di una campo arato o su dune di sabbia, lanciarsi tendaggi dorati per guadare un fiume, affondare le punte degli strumenti in terre scoscese, abbandonare le grida delle loro chitarre nell’incavo di una quercia caduta. Immergersi nell’acqua e danzare con essa, bagnarsi della luce filtrata dai pioppi e comporre sulle selci del greto una canzone per un girasole solo. E poi Ulrike che accarezza il volto dell’uomo: danza disteso sull’erba, compone disegni nell’aria e accetta quell’abbaiare ostinato che alle sue spalle sembra ricordarci che la vita è possibile. L’invenzione, unico farmaco per salvare l’arte nel teatro.
“Oh, Spirito”, il vostro lavoro, è un ulteriore respiro sulla figura totemica?
Ci si dibatte costantemente nella stretta tra origine e attuale, e per risolvere questo enigma non riusciamo a far a meno di richiamare in nostro soccorso parole quali illusionarietà, mimesi e trance. Abbandoniamo per un momento tutte le teorie e le pratiche antropologiche che avviluppano l’argomento e gettiamoci nel fiume scuro dell’inconosciuto: qui giace la musa dell’affinità, colei che, mai inventata, trasuda di vera vita. A lei noi ci aggrappiamo per disegnare il contenitore bucato che filtrerà tutti i flussi e staglierà sul fondo la figura che sceglieremo come uno dei Lari del nostro focolare. Oh, Spirito segna un momento della ricerca che si apre con KIVA, ispirato alla vita e alle opere di Aby Warburg e in particolare al suo pioneristico lavoro dedicato agli indiani Hopi del New Mexico. In VOODOO la compagnia affronta lo straordinario viaggio attraverso i riti di iniziazione e quelli connessi alle trance di possessione del Voodoo, religione sincretica che partita dal Togo e dal Benin ha trovato dimora in Haiti. Il “discorso” sulla Trance e sulla capacità dell’umano di trasferire la propria consistenza in sfere prossime ad un interiore che ridisegna una nuova forma del sé. Ancora in E DI TUTTI I VOLTI DIMENTICATI esplicito è il richiamo ad una identità altra che se non può essere salvifica certamente è portatrice di “verità”. OH! SPIRITO è la creazione ultima: la figura è redivivo che emerge dalle acque, ma queste non sono quelle del vecchio testamento, qui siamo sul Gange per liberare il corpo dalla schiavitù di sé stesso.
Teatro e finanziamenti secondo i direttori artistici di Crisalide Festival
Finanziamenti pubblici e programmazione. Quando il pubblico non sostiene cosa resta da fare?
L’arte, come forma costitutiva dell’essenza del vivente, mal si accompagna alla quotidiana diatriba tra le necessità di governamentalità del potere e le sue aspettative in termini di ritorno dell’investimento.
Individuare i criteri per la valutazione della reale ricchezza di una intrapresa culturale dovrebbe essere il dovere primo di una nuova comunità di amministratori-artisti che, avendo a cuore le risorse pubbliche e la crescita culturale di tutti, cerca di rispondere alla fatidica domanda che da più parti si solleva a proposito della necessità o meno di sostenere con risorse pubbliche l’operatività dell’arte in senso più lato. Nella evidente difficoltà di mettere nero su bianco i caratteri individuanti la pratica artistica e le conseguenti azioni che la comunità dovrebbe adottare per sostenere la sua propensione autopoietica, caratterizzata da procedere ineffabile, perituro e adamantino allo stesso tempo, la domanda sul “Che fare?” sta assillando tutti coloro che non riescono a scorgere nella numerologia del consenso e nella commensurabilità gli unici criteri per discriminare e decretare l’esistenza stessa delle realtà culturali, siano esse compagnie o centri di produzione, siano esse rassegne e festival, o artisti.
Viviamo costantemente scissi tra idealità e prassi: quest’ultima spesso confusa tra compromesso e tradimento, non dico di un giuramento Ippocratico ma dell’essenza stessa, di quel furore che è all’origine della creazione e quindi dell’opera d’arte.
Simone Azzoni
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