25 aprile, cosa resta oggi della Resistenza? Esce L’Eterno Partigiano, il nuovo libro di Caterina Zamboni Russia
- Postato il 16 aprile 2025
- Libri E Arte
- Di Il Fatto Quotidiano
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È un libro sulla memoria, sul farsi carico delle proprie radici e della condivisione di frammenti – “frammenti per un’epica della liberazione” –, quello in uscita il 16 aprile per Compagnia editoriale Aliberti: L’Eterno Partigiano, la nuova fatica letteraria di Caterina Zamboni Russia, già autrice con il padre Massimo Zamboni de La macchia mongolica, dottoranda presso l’Università degli studi di Modena e Reggio e presidente dell’Associazione culturale Terre Native ETS. Ottant’anni dopo la Liberazione, è un libro per ricordare la Resistenza, ma soprattutto per confrontarsi con l’inevitabilità della scomparsa degli ultimi partigiani viventi.
Gli uomini e le donne che hanno combattuto in quegli anni feroci – in queste pagine –, sono affidati alla mnemosine, la facoltà che aiuta a custodire gli atti del passato dalla dispersione di un pensiero che negli anni tende a dimenticare. A patto che non ci si confronti con la morte: “Al funerale del partigiano Notari c’era una banda e c’era tutto il mondo“, scrive l’autrice raccontando un’esperienza diretta, vissuta in quanto abitante dell’appennino, partecipando al rituale collettivo del saluto, rendendo onore alla memoria e confrontandosi con l’irreparabilità della morte.
Cosa resta, oggi, della lotta di Resistenza? Come conservare e accogliere l’eredità di quella storia così gloriosa e cruda, fatta di paura, di minacce, di torture, di morte e, nonostante queste, di vittoria? Caterina Zamboni Russia se lo chiede e ce lo chiede e, nel suo rievocare e immaginare, nel suo peregrinare nella storia, tra le altre cose, ci racconta di un biglietto datato 20 aprile 1925. Trovato in una bottiglia murata nella scala di una casa di Baiso, nella montagna reggiana, questo messaggio per chi sarebbe venuto dopo è stato scritto da chi quella scala l’ha costruita, quando – scrivono gli autori – c’era il “fasismo”, in quel “peridio tempo” in cui si “davano delle grosse legnate a gridare”, quando la Liberazione sarebbe stata ancora lì da venire, vent’anni dopo.
Per gentile concessione dell’editore condividiamo un estratto del libro:
Ecco che Giuda appare con una voce nuova. Le sue uniche parole sopravvissute al tempo risuonano di un’eco che ora occorre rivalutare.
«I mas töc».
Li ammazzo tutti. È un fratello a cui uccidono un fratello.
Verrà a sua volta ucciso e il suo corpo morto rivelerà un’innata capacità di resistenza. Quel corpo rivendicherà la sua presenza tra i vivi e si opporrà al morire per mano straniera: sopravviverà sette giorni alle torture e solo infine ne morirà, ma senza nulla rivelare. Il suo corpo rappresenta l’ingombro di ciò che è indistruttibile. Dovranno mal seppellirlo, nasconderlo dietro al muro del cimitero, umiliarne gli ultimi resti integri per tentare di piegarlo.
Eppure ciò non potrà accadere: i morti sopravvivono a se stessi e rivelano l’infinita resistenza delle carni umane. Quel corpo crocifisso – un palato trapassato parte a parte e gli arti stretti insieme dal metallo – resta vivo nelle memorie di chi vive, come pungolo ereditato nelle coscienze collettive.
A seguito di quei sette giorni, Giuda è un moribondo che non smette di morire.
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La materia umana non può mai restare muta: la sua consistenza di persona un tempo viva rivendica la sua presenza, reclama l’attenzione altrui contro ogni neutralità dello sguardo. Obbliga chi resta vivo a prendersene cura. Reclama uno sguardo a quell’umanità che non traspare più ma che pure un tempo esisteva, obbligando la comunità a fare i conti con l’ingombro del corpo violato.
L’uomo continua a esserci anche quando, cadavere, il suo corpo smette di muoversi: crea uno spazio che vive dell’ombra della sua presenza. E tanto più il suo ingombro durerà nel tempo, tanto più quell’ombra saprà allargarsi, ponendo a noi il disagio di chi sopravvive: un cadavere su cui non riusciamo a prolungare lo sguardo, un corpo che si è lasciato distruggere per difendere il luogo simbolico che esso incarnava.
E in questo, Giuda infine vive: nella figura incomoda di chi non si è lasciato piegare.
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Soppesiamo la figura di sua madre che con un carro trasporta il suo cadavere, dopo che già un altro figlio ha visto morire in casa, il petto trapassato parte a parte da cinque colpi.
È un’immagine senza tempo quella che la storia ci permette di figurare. Una madre disseppellisce il figlio per poterlo seppellire nella terra in cui ha vissuto. Tre donne si incaricano della cura di un defunto. Il carro trasporta il cadavere di un figlio ucciso e torturato per non volerlo sapere insepolto e illacrimato.
Figure che abbiamo letto e interpretato, studiato a forza fino a saperle nostre, riconosciute come luoghi fondativi del nostro pensare collettivo. Fitte nell’ossatura del nostro ragionare le sappiamo vissute mille e mille volte da ogni generazione che nei suoi luoghi si è avvicendata a tempi alterni. All’astrattezza di un pensare per immagini, il cimitero del paese oppone le lapidi di chi ha posseduto e lavorato questa terra, prima di venirne ricoperto.
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Artenice, madre addolorata, ha conservato appese in casa le catene che per sette giorni fino alla morte hanno macinato mani e piedi del figlio Giuda.
Consideriamo quell’oggetto custodito nella casa dei Meglioli – ingombro eterno che l’arrivo di nuove generazioni non saprà alleggerire.
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E pensiamo ad Alma, seppellitrice dei suoi morti. La vicenda che avvolge la sua persona appare quasi come una tragedia greca: Alma si prende cura dei corpi che un potere straniero vuole annientare cancellandone i resti. Tra il timore per la sua stessa vita e la fedeltà ai suoi congiunti sceglie senza esitazioni un secchio d’acqua con cui lavare due visi conosciuti e insanguinati. Il suo è un agire che occorre soppesare.
Alma si incarica del ruolo di chi non si arrende al potere di uomini che nemmeno parlano la sua stessa lingua. Seppellisce i resti dei congiunti per il dovere della sua fedeltà: alla famiglia, al luogo in cui risiede, a quei corpi che, lacerati, tenta di ricomporre secondo come li ricordava in vita.
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Nutrire e donare alla vita.
L’anima che nutre e dà vita all’uomo.
La fanciulla che sa fare del bene ed è gentile.
Che quattro lettere in forma di nome proprio sappiano raccontare le sorti di una persona appare come un fatto da ascoltare per la sua sola capacità di restituire un’immagine indelebile agli occhi di chi vuole ricercarne la storia: Alma. Un nome che nelle sue declinazioni ebraiche e latine indica colei che offre nutrimento e vita alla totalità degli uomini, l’anima stessa del vivere umano. Aspetti che potrebbero non apparire e che pure parlano diretti alle nostre appartenenze, obbligando a soffermarsi sulla figura inesauribile di questa donna.
Il suo nome lascia intravedere un pensiero dell’eterno, capace di fare di questi simboli il filo che lega le vicende private alla storia collettiva, gli uomini agli uomini, il passato al nostro attuale. Il nome di Alma restituisce alla mattina dell’otto settembre del 1944 una complessità che pure era presente, ma non sapeva di avere, sollecitando in noi uno sguardo che si muove dal passato e da un altrove.
Curare il suo morto significa restituirlo alla genealogia familiare e con ciò saperlo sacro.
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