1964, anno di recessione, fine della scuola, inizio della vita vera: così diventai giornalista

  • Postato il 7 settembre 2025
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La recessione era cattiva in quella estate del 1964.
Fu l’anno in cui, dopo il “miracolo”, apparve la prima congiuntura; scoppio’ la prima crisi; c’era la fuga dei capitali all’estero che non provoca solo ristagno, ma quasi un collasso.

Erano mesi tormentati. I contrasti tra i partiti di centrosinistra avevano provocato uno delle più gravi crisi della storia della Repubblica. Si ando’ molto vicino al Colpo di Stato, era il Piano Solo, la cui rivelazione, nel 1967, fece di Eugenio Scalfari, allora direttore dll’Espresso, un personaggio politico nazionale”.
Ma la maggior parte degli italiani non se ne accorse. Avevano problemi piu contingenti.

Nessuno aveva interesse che la crisi si aggravasse e forse anche per questo durò poco. Il “miracolo economico italiano” era finito ma l’occidente si espandeva come una molla e l’Italia, il Paese più povero e arretrato, veniva trascinata nella corsa.

E poi il sistema della informazione era un neonato rispetto ai giganti di oggi, pervasi e capillari.

C’era un solo telegiornale, controllato strettamente, i giornali impastavano e anse e nelle poche pagine a disposizione, una dozzina inclusa la poca pubblicità, non avevano spazio per notizie che nessuno avrebbe comunque mai osato rivelare. C’erano i settimanali che prosperavano, ma i grandi popolari, Oggi e Gente, si occupavano piu del re in esilio che della politica italiana e quelli impegnati a destra (Borghese, Specchio, Meridiano) come a sinistra (Astrolabio, Abc, Espresso) erano prodotti per poche migliaia di lettori.

L’Espresso vendeva assai meno di 100 mila copie, solo il clamore del processo intentato contro Scalfari e Lino Jannuzzi, autore dello scoop, l’eco in Parlamento, la polemica sugli omissis imposti da Aldo Moro al rapporto dei Carabinieri ne fecero un caso nazionale.

Allora, nel luglio del 1964, la mia mente semplicemente rifiutava che ci fossero ostacoli, difficoltà. .A testa bassa entravo in un mondo, quello dei giornali, che ancora non sapevo se mi avrebbe accettato, nel quale invece si è svolta tutta la mia vita.
La mia non vuole essere una storia dei giornali, meno che mai del mondo dell’informazione ma una testimonianza di come quel mondo si è trasformato, in questo mezzo secolo per quel che so, per quel che ricordo di aver visto, per quel che ho sentito ricordare dei tempi remoti.

Ignaro nella vita: era il 1964

1964, anno di recessione, fine della scuola, inizio della vita vera: così diventai giornalista, nella foto Gaetano Nino Fusaroli, il mio capo all’Ansa
1964, anno di recessione, fine della scuola, inizio della vita vera: così diventai giornalista – Blitzquotidiano.it (nella foto Gaetano Nino Fusaroli, il mio capo all’Ansa)

Io non mi accorsi di nulla. Lasciati Dante e Cicerone, il mio problema era come rappresentare in poche righe i risultati di una partita di tennis e di un torneo, come scrivere correttamente i tabellini del calcio e della pallanuoto.
Fu in quella estate del 1964 che, appena finito il liceo, cominciai a fare il giornalista a tempo pieno. Era la prima grande recessione del dopoguerra, la grande febbre dopo il miracolo economico italiano, il boom.
Il Boom si chiamava il locale dove andavamo a ballare, a Genova, la città dove sono nato e vissuto per 27 anni. Era il Neanderthal di una discoteca, un grande appartamento al primo piano di una vecchia palazzina tra scogli e mare nella cornice di Boccadasse, vecchio borgo di pescatori in mezzo ai palazzi alto borghesi di Albaro. Oggi è sede di un buon ristorante dove la location fa il resto.
Chiuse il “Boom” e chiudevano alberghi a Genova e in Riviera. la crisi si faceva sentire, proprio come sarebbe accaduto 50 anni dopo, forse anche peggio, forse più come la Grecia oggi. La crisi provocava fermento, la “apertura a sinistra” e il Governo di centro sinistra Dc – Psi non andava giù a tanti, grandi capitali fuggivano all’estero, Totò ci scherzava nei film ma l’Italia andò vicina al colpo di Stato, il Piano Solo appunto.
Chiudevano i giornali, molta gente restava a spasso, gonfiando quel popolo di emarginati, per lo piu anziani, che dopo l’epurazione post fascismo non avevano piu trovato se non piccola collaborazioni, lavori in sub appalto, stipendi in nero.

Chiudeva il Corriere Lombardo a Milano, un altro ne nasceva e moriva, sempre a Milano, mi pare si chiamasse la Sera, due quotidiani economici, il Sole e il 24 Ore si fondevano nel Sole 24 Ore mentre a Genova il Corriere Mercantile cominciava una lenta agonia che solo la bravura di Mimmo Angeli ha fatto durare mezzo secolo.
In questo quadro, un ragazzo appena uscito dal liceo non aveva grandi prospettive.

L’Italia invece riprese a crescere, il benessere si diffuse sempre piu, i giornali affrontarono con un certo coraggio alcuni dei problemi che li soffocavano, lo Stato diede una mano importante. Da attività incerte e sussidiate, i giornali diventarono un affare, alimentati da un nuovo boom, quello della pubblicità, conseguenza della crescita dei consumi.
La crescita dei consumi apri la pubblicità a nuovi protagonisti, la tv e la radio. Fu un nuovo boom, fra alti e bassi (primi anni ‘90) fino alla apoteosi del 2000 quando l’Espresso valeva in Borsa quasi quanto la Fiat. Internet permise perfino a alcuni di noi di comprare casa,. Poi lo stesso web avvolse in una ragnatela mortale quegli stessi giornali che aveva esaltato aprendo 15 anni di decrescita infelice.
Di quegli anni sono stato testimone e voglio provare a raccontare quello che ho visto, come l’ho visto.
Mi sono occupato solo di giornali, tutta la vita, per mezzo secolo giorno e notte.

“Non ce la farai mai a diventare giornalista, trovati un lavoro vero” mi ripeteva Renzo Bidone, il commendator Renzo Bidone, al cui servizio mi ero posto in quel fine luglio del ’64. Era un vecchio boss del giornalismo genovese prima della guerra, che viveva il declino dalla scrivania di segretario di redazione del Corriere del Pomeriggio era una testata sopravvissuta ai primi scossoni nei giornali del dopoguerra come giornale del lunedì.
Il commendator Bidone aveva ragione da vendere e mise in pratica il suo ammonimento, costringendo il figlio Giorgio a entrare all’Ansaldo, uno dei templi delle Partecipazioni Statali. Giorgio non duro molto in fabbrica. Pochi anni dopo…
Avevo 19 anni e la testa dura, ascoltai o scio Bidon ma solo un po’. D’altra parte, cosa potevo fare a 19 anni con a sola maturità e tante belle speranze?

Amici di una vita

1964, anno di recessione, fine della scuola, inizio della vita vera: così diventai giornalista, nella foto Andrea D’Angelo a una assemblea studentesca. Seduta Luisa Montolivo, sua futura moglie, a sinistra Franco Manzitti
1964, anno di recessione, fine della scuola, inizio della vita vera: così diventai giornalista – Blitzquotidiano.it (nella foto Andrea D’Angelo a una assemblea studentesca. Seduta Luisa Montolivo, sua futura moglie, a sinistra Franco Manzitti)
1964, anno di recessione, fine della scuola, inizio della vita vera: così diventai giornalista, nella foto Cecco Francesco Rossi.
1964, anno di recessione, fine della scuola, inizio della vita vera: così diventai giornalista- Blitzquotidiano.it (nella foto Cecco Francesco Rossi)
1964, anno di recessione, fine della scuola, inizio della vita vera: così diventai giornalista, nella foto Franco Manzitti)
1964, anno di recessione, fine della scuola, inizio della vita vera: così diventai giornalista – Blitzquotidiano.it (nella foto Franco Manzitti)
1964, anno di recessione, fine della scuola, inizio della vita vera: così diventai giornalista,  nella foto Giamba Mattarana
1964, anno di recessione, fine della scuola, inizio della vita vera: così diventai giornalista – Blitzquotidiano.it (nella foto da destra Giamba Mattarana e Gianmaria Scofone, nella fila in alto da destra Andrea D’Angelo e l’autore)

Avevo pochi, ma buoni amici: Andrea D’Angelo, Giamba Mattarana, Franco Manzitti (già lavoravo, lui era più giovane di due anni e gli diedi lezioni di matematica per la sua maturità), Mauro Coppini, Giorgio Alfieri, Andrea Poletti. Siamo rimasti amici tutta la vita, lo siamo ancora oggi. Il padre di Mauro, Guido Coppini era un grande giornalista, capo redattore del Corriere Mercantile e corrispondente-inviato speciale della Gazzetta del Popolo, allora importante quotidiano di Torino poi distrutto dalla eccessiva appartenenza democristiana di Donat Cattin. Aveva un nome de plume di cui mi sono appropriato, Sergio Carli. Soprattutto gli devo un fondamentale consiglio: lascia perdere la letteratura e la poesia pensa allo sport. Fu così che io, senza praticare alcun sport e anzi guardando dall’alto in basso gli sportivi, iniziai occupandomi dei più umili sport della città: il calcio minore, la scherma, il ciclismo eccetera.

Avevo 19 anni, l’ansia del tempo che passava, il mondo vero, quello dei grandi, mi sfolgorava davanti e dovevo imparare ancora tutto, ma proprio tutto. Sapevo di Dante e Cicerone ma non sapevo come mettere in fila i risultati di una partita di tennis o i tabellini del calcio e della pallanuoto, come non perdere i dettagli su legamenti e malleoli dei calciatori di Genoa e Sampdoria agli allenamenti delle squadre dove i vecchi cronisti sportivi mi guardavano con sospetto e compassione.

 

La scelta di fare il giornalista risaliva alla fine della terza media e si era radicata negli anni anche con esperienze dirette. In secondo liceo, avevo cominciato a curare un giornalino sportivo facendomi aiutare dai miei compagni di scuola e dei miei amici si chiamava lo sprint. Direttore era un grand’uomo morto di recente, Riccardo Carovino, una strana combinazione di impiegato di Banca e giornalista di alto livello.

Già nel 1958 avevo fatto la mia scelta. Lo dimostra un foglio di carta che ho trovato di recente e che risale a quel tempo ve lo propongo. A me fa impressione. Mi sembra che fossi meglio allora di adesso. Leggete e constatate voi stessi.

Finita la scuola, mi si presenta la possibilità di scegliere una una una strada, la quale determinerà un indirizzo quasi certamente definitivo nella mia futura vita.

Ed escludere la possibilità che lasci la scuola per dedicarmi a un’attività lucrativa, perché in tal caso precludere ei a me stesso ogni possibilità di affermarmi in avvenire. Infatti, sono assai rari i casi di una brillante carriera partendo da nulla se non si studia. Di solito, quando si presenta questo problema, sorgono una famiglia discussioni sulla scuola che il ragazzo dovrà frequentare sempre premettendo quanto detto sopra .

A volte in una famiglia si trascura il parere del ragazzo, giungendo in tal modo ad una scelta che molto spesso contrasta con lo spirito del ragazzo. A mio avviso, questo rappresenta un grande errore in quanto sempre secondo il mio modesto parere, i parenti e principalmente i genitori devono subentrare nelle scelte solo quando il giovane sia indeciso o impreparato a scegliere.

Parliamo di me, di quello che sono, i miei ideali e le mie impostazioni, e quali siano i progetti dei miei. Io intendo continuare a studiare fino all’università anche se per frequentare dovrò lavorare.

Fino a qualche mese fa, volevo studiare ingegneria. In seguito ho cambiato idea. È conforme al mio carattere cambiare idea sovente.

Per quanto riguarda invece la scuola da frequentare l’anno venturo per me non esiste dubbio. In questo i miei non si sono ancora posti al mio desiderio. Resta quindi certo che frequenterò il ginnasio-liceo.

Se a qualcuno verrà in mente di contrastarmi, saprò come difendermi e difendere i miei progetti a spada tratta, confutando ogni accusa mossa contro questa mia impostazione.

Per me il classico è la migliore scuola superiore che attualmente esista in quanto prepara gli alunni sia nelle discipline classiche sia in quelle scientifiche.

Lo studio di materie come il greco, il latino, la filosofia permette allo studente di acquistare una capacità di pensiero altrimenti inattuabile mentre le materie moderne matematica fisica scienze aggiornano il giovane, mettendoli in grado di parità rispetto alle altre scuole.

Per questi motivi, i giovani usciti dal liceo classico possono accedere a tutte le facoltà universitarie.

Logico quindi che i conformità al mio carattere per il quale cambio spesso idea, io frequento il classico in quanto questo tipo di studio mi permette la più ampia, la più ampia facoltà di scelta in un non immediato futuro.

Attualmente la mia massima aspirazione di diventare giornalista. Anche questo perché mi dà modo di estendere la mia conoscenza in in tutti i campi del sapere, senza però chiedermi approfondimento e eccessivo che precluderebbe la mia possibilità di accedere ad altre conoscenze.

Mi iscrissi all’universita a Matematica, pensanndo: “Se il vecchio ha ragione, mal che vada andrò a insegnare. La matematica mi piace, e unabsublime astrazione, non c’è filosofia che tenga”.
Andai a lezione un paio di volte, fortuna che mi portava un ragazzo del mio quartiere, Paolo Moretti, che studiava ingegneria, sarebbe diventato imprenditore di successo e aveva il maggiolino della Volkswagen. Era comunque un incubo alzarsi all’alba per stiparsi in un’aula gravida di miasmi notturni certo non esorcizzati dalla doccia, per sentire racconti affascinanti, quasi magici, sugli insiemi e i numeri primi.
Un giorno sul Corriere dello Sport era apparsa in prima pagina una mia intervista a Nereo Rocco, non ricordo a che titolo. Mi guardai attorno e decisi che era meglio la vita da giornalista, magari negro, trombettiere e precario, ma a contatto col flusso della vita vera.
Il mestiere di giornalista ha un lato bieco, che nella sua periferia si possono avere casi di sfruttamento che durano anni. Quello del giornalista e un mestiere anomalo. Ha le caratteristiche di una professione ma nel 99 per cento dei casi il cliente e uno solo, l’editore che ti assume.
Ma mentre negli altri lavori impiegatizi o ci sei o non ci sei, in quello di giornalista ci puoi essere ma solo a meta’. E’ la figura che oggi rientra nella grande schiera dei precari, una volta era limitata proprio al giornalismo e si chiamavano abusivi.
Tornerò sul tema perché ho vissuto casi di sfruttamento legati all’abusivismo veramente ignobili, nella mia esperienza non per colpa principale degli editori, ma soprattutto dei colleghi.
Nel mio caso fu la manna. Nessuno mi avrebbe mai assunto in un giornale, recessione o no. Mio padre era un barbiere in pensione. Nei giornali entravi e entri per due strade: sei figlio di qualcuno o lavori tanto cha gli fai proprio comodo. Imbocai la strada del lavoro a testa bassa, anzi l’avevo già cominciata al liceo e questo mi porto a conoscere.Renzo Bidone. Furono anni di lavoro duro, senza ferie, domeniche, feste consacrate. Furono anni di entusiasmo e un po’ di esaltazione, riuscii anche a laurearmi (scienze politiche, non matematica) e a prender moglie.
Anche se il ciclo economico non ebbe molta influenza sulla successiva evoluzione della mia vita, almeno fino agli anni ’90, non saremmo dove siamo se la recessione non fosse svanita in una nuova fase di sviluppo, fino alla doccia fredda della crisi petrolifera del ’73.
In mezzo ci furono ’68 e autunno caldo, inizio del terrorismo e violenza diffusa. Che ci sia stata una crescita davvero imponente lo vedo oggi un po’ guardando ii grafici del Pil e un po’ grazie alla mia buona memoria e al confronto di alcuni parametri di benessere (case, automobili, ristoranti) anche se questo confronto si confonde con la mia crescita personale che fa un po’ da moltiplicatore dei parametri. Ma come me sono stati tanti a fare il doppio salto, in quegli anni un po’ magici. Dagli aratri nei solchi agli aerei nel cielo, cantava Luigi Tenco.

 

Come andrà a finire? Forse più che ricordi interessano previsioni, ma le previsioni di solito sono sbagliate. Vado spesso al Foro romano per imprimermi negli occhi la dimensione fisica del crollo di un grande impero, guardo oggi le foto di Babilonia saccheggiata, di Ninive martellata e penso che da quelle macerie un tempo comandavano un pezzo di mondo e tutte le volte che per strada a Roma incrocio una carrozzella a cavalli penso ai giornali.
Ma confesso che di quel liceale di mezzo secolo fa ho conservato la caparbia fede nel progresso e nel futuro.
Tutto cambia, tutto cambierà, tutti moriremo e tutto vivrà. Non è solo una banalità da oracolo che può dire tutto e il contrario di tutto, è anche un modo di esprimere una certezza. Tante cose non ci saranno più, così come tante cose di ieri sono finite ma il mestiere di informare resterà e con esso doveri, etica, professione. Adattarsi ai nuovi canoni sarà più complesso che passare dai fogli appiccicati con la coccoina al copia incolla del computer.
Sarà un’altra cosa, più dura più difficile più grande più importante.
E i giovani? Ce ne sarà per tutti, in modo diverso, come è guidare un taxi invece di una carrozza a cavalli. Il futuro è dentro di noi come il nostro passato, fortuna e errori inclusi.
Per avere una prospettiva di come il mondo dell’informazione si è trasformato, prendere il 1964 non vuol dire solo fare corrisponde il momento zero del racconto con l’inizio della mia esperienza diretta, è anche vedere come da quella crisi, come da altre dopo d’allora, i giornali siano usciti e l’ecosistema giornali + radio + tv si sia adattato e trasformato.
L’uomo emerse dalla foresta perché la siccità in Africa milioni di anni fa costrinse un branco di scimmie a ingegnarsi e cercare nuovi modi di procurarsi il cibo e diventare carnivore.
Oggi la siccità della foresta delle notizie si chiama recessione e i nuovi predatori si chiamano internet e televisione digitale e satellitare. Non tutti arriveranno interi alla fine ma così è sempre stato. Quanti giornali sono morti, quante le testate di cui quasi nessuno ricorda il nome. Ci sarà una moria di riviste, anzi è in corso. A noi quello che interessa è che le notizie circolino libere non il modo in un sono diffuse.
Se ribaltiamo la nostra tendenza a essere autoreferenziali vedremo che il problema non sono i mezzi ma i fruitori, cittadini dello Stato democratico, il Mercato.

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Autore
Blitz

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